Una vittoria che viene da lontano
E invece stava succedendo qualcosa di nuovo. Il travolgente successo nella raccolta delle firme era certamente il frutto di un lavoro da tempo cominciato da alcuni gruppi. In quel momento, però, incontrava una società che cambiava nel profondo, dove l’antipolitica cominciava a rovesciarsi in una rinnovata attenzione per la politica, per un’altra politica. Ai referendum sull’acqua si affiancarono quelli sul nucleare e sul legittimo impedimento. Nasceva così un’altra agenda politica, alla quale, di nuovo, non veniva riservata l’attenzione necessaria.
Mentre i referendari lavoravano per blindare giuridicamente i quesiti e farli dichiarare ammissibili dalla Corte costituzionale, le dinamiche sociali trovavano le loro strade, anzi le loro piazze. Sì, le piazze, perché tra l’autunno e l’inverno questi sono stati i luoghi dove i cittadini hanno ritrovato la loro voce e la loro presenza collettiva. Le donne, le ragazze e i ragazzi, i precari, i lavoratori, il mondo della scuola e della cultura hanno creato una lunga catena che univa luoghi diversi, che si distendeva nel tempo, che faceva crescere consenso sociale intorno a temi veri, nei quali si riconosceva un numero sempre maggiore di persone – il lavoro, la conoscenza, i beni comuni, i diritti fondamentali, la dignità di tutti, il rifiuto del mondo ridotto a merce.
Le piazze italiane prima di quelle che simboleggiano il cambiamento nel nord dell’Africa? Le reti sociali, Facebook e Twitter come motori delle mobilitazioni anche in Italia? Proprio questo è avvenuto, segno evidente di un rinnovamento dei modi della politica che non può essere inteso con le categorie tradizionali, che sfida le oligarchie, che rende inservibile la discussione da talk show televisivo. Forse è frettoloso parlare di un nuovo soggetto politico per una realtà frastagliata e mobile. Ma siamo sicuramente al di là di quei “ceti medi riflessivi” che segnarono un’altra stagione della società civile. Di fronte a noi sta un movimento che si dirama in tutta la società , prensile, capace di costruire una agenda politica e di imporla
Mentre tutto questo avveniva, le incomprensioni rimanevano tenaci. Patetici ci appaiono oggi i virtuosi appelli contro il “movimentismo”, provenienti anche da persone e ambienti dell’opposizione, che oggi dovrebbe riflettere seriamente sulla realtà rivelata dalle elezioni amministrative e dai referendum invece di insistere nella ricerca di categorie astratte – il centro, i moderati. E se la maggioranza vuol cercare le radici della sua sconfitta, deve cercarle proprio nell’incapacità totale d’intendere il cambiamento, con un Presidente del consiglio che ci parlava di piazze piene di fannulloni, una ministra dell’Istruzione che non ha incontrato neppure uno studente, una maggioranza che pensava di domare il nuovo con la prepotente disinformazione del sistema televisivo.
Guardiamo alle novità , allora, e alle prospettive e ai problemi che abbiamo di fronte. Il voto di domenica e lunedì ha restituito agli italiani un istituto fondamentale della democrazia – il referendum, appunto. Ma ci dice anche che bisogna eliminare due anomalie che continuano a inquinarne il funzionamento. È indispensabile riscrivere la demagogica legge sul voto degli italiani all’estero, fonte di distorsioni, se non di vere e proprie manipolazione. È indispensabile ridurre almeno il quorum per la validità dei referendum. Pensato come strumento per evitare che l’abrogazione delle leggi finisse nelle mani di minoranze non rappresentative, il quorum ha finito con il divenire il mezzo attraverso il quale si cerca di utilizzare l’astensione per negare il diritto dei cittadini di agire come “legislatore negativo”. Si svilisce così anche la virtù del referendum come promotore di discussione democratica su grandi questioni di interesse comune.
Ma il punto cruciale è rappresentato dal fatto che ai cittadini è stato chiesto di esprimersi su temi veri, che liberano la politica dallo sguardo corto, dal brevissimo periodo, e la obbligano finalmente a fare i conti con il futuro, con una idea di società , con il rinnovamento delle stesse categorie culturali. Un’altra agenda politica, dunque, che dà evidenza all’importanza dei principi, al rapporto nuovo e diverso tra le persone e il mondo che le circonda, all’uso dei beni necessari a garantire i diritti fondamentali di ognuno. La regressione culturale sembra arrestata, il risultati delle amministrative e dei referendum ci dicono che un’altra cultura politica è possibile.
Il voto sul nucleare non ipoteca negativamente il futuro dell’Italia. Al contrario, impone finalmente una seria discussione sul piano energetico, fino a ieri elusa proprio attraverso la cortina fumogena del ritorno alla costruzione di centrali nucleari. Il voto sul legittimo impedimento ci parla di legalità e di eguaglianza, esattamente il contrario della pratica politica di questi anni, fondata sul privilegio e il rifiuto delle regole. Il voto sull’acqua porta anche in Italia un tema che percorre l’intero mondo, quello dei beni comuni, e così parla di un’altra idea di “pubblico”. Proprio intorno a quest’ultimo referendum si è registrato il massimo di disinformazione e di malafede. Si è ignorato quel che da decenni la cultura giuridica e quella economica mettono in evidenza, e cioè che la qualificazione di un bene come pubblico o privato non dipende dall’etichetta che gli viene appiccicata, ma da chi esercita il vero potere di gestione. Si sono imbrogliate le carte per quanto riguarda la gestione economica del bene, identificandola con il profitto. Si sono ignorate le dinamiche del controllo diffuso, garanzia contro pratiche clientelari, che possono essere sventate proprio dalla presenza dei nuovi soggetti collettivi emersi in questa fase.
Quell’agenda politica deve ora essere attuata ed integrata. È tempo di mettere mano ad una radicale riforma dei beni pubblici, per la quale già esistono in Parlamento proposte di legge. E bisogna guardare ad altre piazze. Quelle che affrontano il tema del lavoro partendo dal reddito universale di base. Quelle che ricordano che le persone omosessuale attendono almeno il riconoscimento delle loro unioni: un diritto fondamentale affermato nel 2009 dalla Corte costituzionale e che un Parlamento distratto e inadempiente non ha ancora tradotto in legge, com’è suo dovere.
La fuga dai referendum non è riuscita. Guai se, dopo un risultato così straordinario, qualcuno pensasse ad una fuga dai compiti e dalle responsabilità che milioni di elettori hanno indicato con assoluta chiarezza.
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