by Editore | 15 Giugno 2011 8:41
I due mattatori occupano la scena senza sforzo. Il «vento è cambiato» e le loro vele l’avevano annusato e preso molto prima. Da angolazioni diverse, necessariamente anche per approdi differenti, ma la spinta che ricevono e diffondono per ora è piena. Maurizio Landini e Michele Santoro sanno stare sul ring per mestiere. Il combinato disposto è devastante. Venerdì a Bologna, nel bel mezzo delle celebrazioni per i 110 anni della Fiom, insieme promettono scintille mediatiche, sociali e quindi politiche.
Il segretario della Fiom, da buon padrone di casa, si limita a ricordare la gravità della disdetta – comunicata dalla Uil – degli accordi del luglio ’93, che insieme a tante altre cose (risale ad allora, in pratica, il congelamento dei salari) regolavano anche il funzionamento delle rappresentanze aziendali elette dai lavoratori. La mossa della Uil di fatto retrodata la rappresentanza sui luoghi di lavoro a ben prima, ossia alle Rsa nominate direttamente dai sindacati, ossia dal centro. «Un po’ come l’attuale legge elettorale, in cui sono i capipartito a decidere chi deve andare in parlamento». Non gli sfugge neppure il «fuori tempo» della mossa Uil: «in un momento in cui si chiede l’estensione della democrazia, è gravissimo che si pensi che la democrazia in fabbrica debba essere cancellata».
L’ultima frecciata la riserva a Sergio Marchionne e al governo: sabato inizia a Torino la causa contro il «modello Pomigliano» intentata dalla Fiom, per «un trasferimento di azienda fatto contro la legge» e soltanto per «decidere quali sindacati debbono esistere oppure no». E quindi, l’annuncio – da parte del ministro Maurizio Sacconi – di voler fare una legge nel caso la Fiat perda la causa si merita la battuta «troverei singolare una legge ad aziendam soprattutto ora che il popolo ha stabilito di non volere neanche quelle ad personam».
La star della tv non ama i toni paludati, si trova a suo agio nel salone metalmeccanico piazzato nello scantinato di Corso Trieste e promette che la trasmissione di venerdì sarà «un esperimento multipiattaforma», non la ripetizione di «Rai per una notte». Culla ancora «velleità rivoluzionarie» e polverizza l’immagine di buona parte dei recenti vertici della Rai. Direttamente quella dell’ex direttore generale Masi («ex paracadutista», «l’ho incontrato una trentina di volte, non ha mai messo insieme quattro parole»), indirettamente quella di molti altri, tra i quali si poteva intravedere senza sforzi anche la figura di Garimberti.
Ma la sfida che pone alla Rai e alla politica è decisamente più alta. Invita tutti a «riflettere sul terremoto in atto nella televisione, se in una giornata di dopo elezioni Mentana su La7 fa il 14% e il Tg1 appena il 22». Ma soprattutto spezza tre lance a favore di «una Rai pubblica» che è l’esatto opposto di una «televisione di stato» («un insulto a chi ci lavora»). Ammette che la sua vecchia idea di riforma prevedeva una Rai «sempre unitaria», ma con una parte dei servizi chiaramente finanziata dal canone (che copre all’incirca il 50% degli introiti) e il resto finanziato con la pubblicità .
Apprezza quanti – a cominciare dal segretario del Pd, Pierluigi Bersani – parlano ora di un «passo indietro dei partiti» rispetto alla nomina dei vertici dell’azienda. Ma ad una domanda che gli preme vorrebbe proprio risposta: «come si scelgono i vertici?». Qui butta la sua idea: «gli abbonati oggi hanno solo obblighi e nessun diritto, diamogli la possibilità – ad ogni scadenza di consiglio di amministrazione – di votare i consiglieri sulla base di una lista di candidati che abbiano presentato i propri curricula». Perché è «insopportabile che a dirigere ci sia gente che la tv non l’hai mai fatta».
È quasi una precondizione. «Potrei candidarmi a direttore generale», in questo caso. Ed ha gioco facile nel rispondere su come agirebbe da quella posizione: «Farei subito il giro degli autori; andrei da Adriano Celentano, da Sabina e Corrado Guzzanti per dirgli che sono stufo di vederlo su Sky, andrei da Beppe Grillo per dirgli di lasciar perdere Cinquestelle e tornare a fare i suoi bei programmi; e dalla Gabanelli a chiederle cosa le serve per andare in onda tutto l’anno».
Un’idea di «pubblico» molto diversa dallo «statalismo» anteguerra. Che ha il sapore di «beni comuni» e partecipazione popolare. E che potrebbe magari servire a salvare anche grandi aziende assai diverse dalla tv; come quelle che troppo fideisticamente sono state «privatizzate» o i cui attuali manager gestiscono con piglio dittatoriale, dicendo ai propri dipendenti «o fate come dico io o me ne vado in altro paese». Un’idea insomma per chi, in questo paese, ci vuole continuare a vivere e lavorare. Con dignità .
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