Turchia, vince ancora Erdogan ma il premier manca il plebiscito
ANKARA – Ha sfiorato il 50 per cento dei voti. «Siamo passati – scandisce al microfono, con a fianco la moglie Emine, elegantissima nel suo velo bianco e blu – da 16 a 21 milioni di voti». Un trionfo, sì. Eppure non la vittoria travolgente che si attendeva.
Sulla balaustra i ministri fanno festa. Sotto sventolano migliaia di bandiere con la lampadina accesa, simbolo dell’Akp, partito conservatore di ispirazione religiosa. Il primo ministro cita Mustafa Kemal, cioè Ataturk, fondatore della Turchia moderna. «Saremo modesti nella vittoria». Lo ripete: «Modesti». Ha appena ottenuto per la terza volta in meno di dieci anni un mandato chiaro dagli elettori – un record, per lui e per il Paese – e governerà fino al 2015 un esecutivo monocolore. Ma nella distribuzione dei seggi la sua compagine ha perso qualche poltrona, scendendo a 325 deputati. Un deficit inatteso, che non gli consentirà di riformare la Costituzione per arrivare a una Repubblica presidenziale in stile francese. Non almeno da solo. Adesso, per scambiarsi il posto con il capo dello Stato, Abdullah Gul, e guidare il Paese fino al 2023, centesimo anniversario della Turchia fatta da Ataturk, dovrà mediare con gli altri partiti, sottoporre la modifica in Parlamento, e farla approvare in un referendum. «La nostra nazione ci ha detto di fare la Costituzione attraverso la collaborazione», ha spiegato.
Una strada in salita. Ma nella fresca sera di Ankara adesso è il momento della festa. Un successo personale enorme per un leader tanto carismatico quanto odiato dagli avversari. Ex giocatore di calcio, ex esponente di una formazione islamica radicale, ex sindaco di Istanbul, oggi Erdogan è il capo indiscusso e finora senza eredi di questo partito, una sorta di Democrazia cristiana turca, che nel 2002 ha ottenuto il 34 per cento dei voti, nel 2007 ha doppiato il successo salendo al 47, e ora ha quasi sfondato un nuovo limite raggiungendo il 49,9 dei consensi.
Ma Giustizia e sviluppo è rimasta ben lontana dal sogno di ottenere addirittura 367 seggi, cioè i due terzi dell’Assemblea necessari per riformare la Carta. E i desideri del premier turco si sono scontrati con la realtà di altre due compagini che in Parlamento sono riuscite a mantenere salde le proprie posizioni.
Ha guadagnato punti il partito socialdemocratico (Chp), arrivando al 25,9 per cento. Quello di ieri era un test fondamentale per una formazione in passato spesso criticata in Europa per le istanze nazionaliste che proponeva, pur definendosi di sinistra. Colpito da uno scandalo sessuale il leader che aveva ottenuto solo sconfitte (Deniz Baykal), il partito fondato da Ataturk lo scorso anno è passato nelle mani di Kemal Kilicdaroglu. Forse non un leader naturale, ma un uomo pulito che ha riportato il gruppo nell’alveo delle istanze originarie. Gli elettori lo hanno capito e premiato.
Gioisce anche il Partito di azione nazionalista (Mhp). La formazione erede dei vecchi Lupi grigi, che indossando il doppiopetto sta ora cercando di lasciare i propositi più radicali, ha ottenuto un inatteso 13 per cento. Un risultato ben al di sopra dello sbarramento altissimo per entrare al Parlamento di Ankara, che è del 10%. Il suo leader, Devlet Bahceli, promette di rendere la vita difficile a Erdogan, accusato di aver voluto sporcare l’immagine del partito facendo fabbricare scandali sessuali contro alcuni suoi esponenti, nel tentativo di indebolire la formazione di centro destra ed erodergli voti.
Spazio anche ai candidati indipendenti, e a ben 35 deputati curdi i quali, presentandosi individualmente, hanno così trovato la strada per avere voce in Parlamento.
Il successo premia in ogni caso il buon governo di Erdogan. Che in 9 anni ha dato alla Turchia stabilità , sicurezza economica, e garantito sanità , scuole e lavoro. Ora occorre vedere come si comporterà il premier nel richiedere le modifiche costituzionali.
Dovrà frenare la sua nota insofferenza verso la mediazione, e negoziare con i leader degli altri partiti. Dovrà fare anche ripartire il Paese per colmare le riforme che mancano. Il commentatore Hugh Pope, autore di tre libri sulla Turchia e sulla regione circostante, analista dell’International Crisis Group, ha fissato un intelligente piano in 10 punti. Eccoli, in estrema sintesi, secondo il suo ordine: «Rilanciare il processo di ingresso in Europa. Aggiustare la questione di Cipro. Applicare la riforme. Risolvere il problema curdo. Sostenere l’impegno della Turchia in Medio Oriente. Normalizzare la rottura con Israele.
Normalizzare le relazioni con l’Armenia. Terminare la disputa sul Mar Egeo con la Grecia. Investire nel miglioramento di questioni interne come la giustizia, la scuola, le donne, la libertà d’espressione. Ampliare la partecipazione democratica». Solo così Erdogan potrà arrivare alla meta agognata, quella del 2023, presentandosi al Paese, e al mondo, come il secondo padre della patria.
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