Tremonti resiste sulle tasse “La serietà  mia unica linea il premier e Bossi lo capiscano”

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Da giorni, però, il ministro dell’Economia ripete questa frase come un mantra. Una formula sacra intoccabile. Lo ha fatto prima delle amministrative, lo ha ripetuto lunedì scorso nel vertice di Arcore. Lo ha confermato martedì notte nel summit supersegreto con il premier e i ministri leghisti. L’idea di dare una sforbiciata alle aliquote irpef non trova la sponda del titolare del Tesoro. Che stavolta ha dovuto far fronte – con la sola comprensione di Gianni Letta – non solo al Cavaliere ma anche alle pressioni del Senatur. «Dobbiamo ridurre le tasse in modo tale – è stata la richiesta formulata dal premier con una certa decisione – che non se ne accorgano solo i commercialisti, ma anche gli elettori».
La questione del resto è ormai esplosiva. Palazzo Chigi e il Carroccio considerano l'”arma tributaria” l’unica in grado di frenare una deriva che sembra inarrestabile. Per Berlusconi, è il solo strumento che possa arginare il declino di questa maggioranza senza un cambio della guardia ai vertici dell’esecutivo. Per il Carroccio, il solo escamotage capace di controllare il malcontento che monta nella base leghista. Non a caso Bossi cerca una linea di difesa in vista del raduno di Pontida di domenica 19. lo fa con una certezza: «Si arriva fino al 2013 se facciamo qualcosa sulle tasse. Altrimenti, andiamo tutti a casa». E non è nemmeno un caso se l’altro ieri sera, i quattro commensali abbiamo passato un bel po’ di tempo a capire se e come “trasferire” i ministeri al nord. Risultato: trasloco solo per “tre” uffici di rappresentanza. Quelli di Bossi e Calderoli a Monza (forse nei pressi di Villa Reale) e quello della Carfagna a Napoli. Stop. Ma questo è il segno dell’allarme vissuto tra i lumbard. Con il Senatur strattonato da una parte e dall’altra da «due Leghe»: quella del «cerchio magico» composto dalla famiglia, Reguzzoni e Rosi Mauro, filogovernativa e superberlusoniana. E quella di «Via Bellerio», con i ministri consci della sfiducia che serpeggia tra i militanti padani.
L’altro ieri sera, quindi, il nodo è apparso ancora più inestricabile. Le valutazioni dell’Unione europea sul nostro debito, la crisi che fa fibrillare la Grecia e l’approssimarsi dell’appuntamento con la manovra di 7-8 miliardi (prima tranche di complessivi 40 miliardi) impostaci da Bruxelles non permettono alcun intervento concreto del Tesoro sulle tasse. Eppure il premier insiste. E addirittura ha suggerito di rinunciare proprio alla “manovrina” per dirottare quelle risorse sull’Irpef: «Così potremmo impiegare qui soldi per gli italiani». Dimenticando, però, che il patto per il rientro dal debito è stato proprio lui a firmarlo davanti a tutti i partner europei. «Allora si faccia qualcosa contestualmente a quell’operazione», ha riprovato.
Ma la trincea di Tremonti non si è abbassata. È convinto che le promesse elettorali del 2008 siano rispettate: già  allora imperversava la crisi e ogni impegno era subordinato all’andamento della recessione. «In questo – è stato il suo ragionamento davanti agli alleati sempre più insoddisfatti – siamo coperti e lineari». Per spiegare cosa è accaduto nel mondo negli ultimi tre anni, il ministro dell’Economia spesso ricorda quel che disse Rochefoucauld a Luigi XVI alla vigilia della presa della Bastiglia. “Una rivolta? No, è una rivoluzione”. Pure il governo italiano si è trovato di fronte a una «rivoluzione» e non a un ciclo economico: una vera crisi che reclama una discontinuità  radicale.
Discorsi, però, che non fanno presa sul Cavaliere. Sempre più insofferente per i “non possumus” dell’ex amico Giulio. Al punto di auspicarne le dimissioni. «Nessuno è indispensabile», si è sfogato ieri con alcuni deputati del Pdl. Ai quali ha di nuovo ventilato l’ipotesi di “spacchettare” il dicastero (Tesoro, Finanze e Bilancio) tremontiano assegnando alcune deleghe a un fedelissimo come Antonio Martino. Che non a caso ieri è andato a Palazzo Grazioli per prospettare un’altra soluzione: «Introduciamo le tre aliquote con un disegno di legge di iniziativa parlamentare presentato dal gruppo storico di Forza Italia». Un progetto che attira il presidente del consiglio. Anche perché comporterebbe automaticamente le dimissioni di Tremonti. Ma a Palazzo Chigi non tutti sono certi che la coalizione sia in grado di reggere l’urto di un tale scontro. La paura è che le agenzie di rating e i mercati possano penalizzare in modo disastroso il Paese con l’addio dell’attuale ministro.
Un timore di cui il titolare di Via XX Settembre è consapevole. Tant’è che alla cena di martedì si è presentato con una serie di tabelle che non lasciavano spazio a interpretazioni. Il quadro economico mondiale, rispetto all’inizio della legislatura – è il ragionamento svolto negli ultimi due incontri con il premier -, non è migliorato rispetto all’inizio della legislatura: prima bisognava fare i conti con il default della Lehman brothers, ora con quello di un intero paese come la Grecia. Per questo il titolare dell’Economia rammenta che le osservazioni dell’Unione europea non sono superficiali. Che la moneta unica obbliga i membri a rispettare i parametri. E che il nostro problema è il «debito». Prendendo in prestito una metafora già  usata dal Cavaliere, l’Italia è come una famiglia che incassa 100 e spende 104,5: «Alla fine la Banca ti chiede un piano credibile di rientro». Senza considerare che i tassi di crescita non sono certo impetuosi: gli Stati uniti avanzano di meno del 2%. L’Italia del nord sta al 2,1% ma quella del sud supera di poco lo zero. E sebbene il “Governement revenue” di Eurostat assegni all’Italia incassi di due punti superiori alla media europea, poi però sottolinea che il costo degli interessi sul debito supera i 70 miliardi. «Allora – ha ripetuto a Berlusconi, Bossi e Calderoli – io capisco i problemi di consenso e anche quelli di Pontida, ma bisogna dare una risposta anche al risparmio delle famiglie e alla coesione sociale. Perché se si commettono errori sul risparmio delle famiglie, non vai a casa. Sono loro che ti vengono a prendere a casa tua».

 


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