Tra i cowboy in guerra all’alba del nuovo Stato
KUAJOK (SUD SUDAN) – Mucche, petrolio, razzie di bestiame, contese per i pascoli e le abbeverate, guerra di tribù e di bande armate, volti truci di uomini che indossano cappellacci a larga tesa, polvere, avvoltoi, desolazione e spazi infiniti. Visto dalla derelitta Kuajok, capoluogo dello stato di Warrap, il Sud Sudan è un sofferente, remoto Far West africano. Un Texas del sottosviluppo. Fra meno di venti giorni, il 9 luglio, questo Paese vasto due volte l’Italia e con otto volte meno abitanti proclamerà la propria indipendenza, diventando il centonovantatreesimo Stato del pianeta e il cinquantaquattresimo dell’Africa, presentandosi al mondo con un fardello di guai: «Nuovo Paese, Nuovo Inizio», dice un cartellone lungo la strada, «fa’ oggi il tuo test HIV».
In un capannone dai muri di cemento e dal tetto di lamiera, l’aria infuocata smossa da tre ventilatori pendenti dal soffitto, un gruppo di uomini discute. Non sono uomini qualunque. Hanno volti impressionanti, segnati da fitte scarificazioni che ne indicano l’appartenenza tribale: quelle a pallini sono dei Nuer, quelle rigate dei Dinka. Sono capi supremi dei rispettivi clan: non c’è autorità tribale superiore alla loro. Sono riuniti in una conferenza di pace, il cui scopo è mettere fine alle razzie e alle faide che affliggono questa regione. L’ultima è costata otto morti e un numero imprecisato di mucche che i Nuer hanno portato via ai Dinka Twic Akuar (se ho capito bene la complessa ramificazione di clan e sottoclan).
«Non ci sono Dinka e Nuer, siamo una cosa sola. Molti di voi Nuer avete sposato le nostre figlie», dice un oratore. Volano applausi, ma anche occhiate che non vorresti incrociare col buio nella solitudine dei pascoli. La discussione si fa intensa. Si tratta di mettersi d’accordo sul risarcimento per ciascun ucciso. Si conviene in una risoluzione che l’indennizzo sarà di 35mila pounds sudanesi, pari a trenta o trentuno mucche, che da queste parti sono la vera unità di conto.
Alla fine c’è un momento commovente per tutti, quando i torvi capoclan si scambiano pacche e abbracci e sventole con i loro cappelli da cowboy, dando la sensazione che un passo avanti sia davvero compiuto sulla strada della riconciliazione nazionale: «Nuovo Paese, Nuovo Inizio». Quello che hanno discusso nell’afa di Kuajok non è una questione da poco se, stando alle cifre di un rapporto Onu, ogni mese circa duemila vite vanno perdute in conflitti tra tribù in tutto il Sud Sudan. «Di risoluzioni ce n’è già fin troppe», scalpita un ragazzone poco più che quarantenne, l’unico dei presenti in un elegantissimo completo. Si chiama Martin Mashod, membro dell’Assemblea del confinante stato di Unity. «Il problema è che nessuno le applica. Per questo non ci fermeremo, vogliamo arrivare al massimo livello». Il massimo livello è il presidente Salva Kiir, un Dinka originario proprio di qui; e il vicepresidente Riek Machar, che è un Nuer, originario di Unity.
Ma ancor più scettica di Martin è una personalità indipendente da anni coinvolta in negoziati e processi di pace di questa regione africana, alla quale, di ritorno a Juba, capitale provvisoria del Sud Sudan, chiedo un commento sulla conferenza di Kuajok. «Questi processi di riconciliazione dal basso sono una cosa bella, però vana», dice con sicuro disincanto. «A portare l’odio sono i diavoli venuti da fuori». I fatti delle settimane successive gli hanno dato tristemente ragione. Nello stato di Unity è in pieno corso una rivolta di truppe al comando del generale «rinnegato» Peter Gadet, già costata decine di morti, incendi di villaggi, fuga di popolazioni. Con questa, le ribellioni armate fanno almeno tre: più a est, sull’altra sponda del Nilo, c’è quella guidata da Gabriel Tangynia; e quella di George Athor.
Il ceto dirigente del Sud Sudan ha alcuni elementi in comune. Molti di costoro sono ex seminaristi («Studiano da noi, poi ringraziano e vanno a fare i ministri», ammette sconsolato il vescovo di Wau Rudolf Deng). In secondo luogo, da governatore in su, sono tutti generali o ex generali: come dice un altro prelato cattolico, l’arcivescovo di Juba Paolino Lukudu, «sono tutti militari, a cominciare dal presidente, e la loro esperienza amministrativa è scarsa».
In terzo luogo, hanno acquisito nel lungo trentennio di guerra civile che li ha opposti al Nord arabo e musulmano del Paese il costume di cambiare facilmente alleanze, passando con volatile imperturbabilità , a seconda del momento e della convenienza, dalla politica alle armi e viceversa. Athor, Tang, Gadet, sono un po’ signori della guerra, un po’ affaristi; stanno ora col governo, ora con le proprie truppe ribelli; il primo è tornato ad autorizzare massacri dopo aver perso le elezioni a governatore nello stato di Jonglei; gli altri due sono entrambi a libro paga della multinazionale americana Jarch, cui fanno da consulenti (insieme al vice capo di stato maggiore dell’esercito governativo, Paolino Matip, e a suo figlio Gabriel, che ha dato in concessione alla Jarch 400mila ettari di terra coltivabile).
Tale è la desolante natura della politica sudsudanese. Una perenne schermaglia di potenti, nella quale gioca ugualmente – finanziando l’uno, armando l’altro, blandendo le ambizioni di un terzo e dichiarando che la situazione dimostra come il nascituro Paese non sia in grado di governarsi da sé – il «diavolo venuto da fuori», cioè il regime del Nord Sudan.
Le emergenze non mancano. Fuori dalle città non c’è un chilometro di strada asfaltata. Il conto della sanità pubblica è pagato per due terzi dai donatori internazionali. Nove persone su dieci vivono nelle capanne; una su due non ha nemmeno un paio di scarpe; solo una su tre sa leggere e scrivere. I decenni della guerra civile si sono lasciati dietro una scia di devastazione, generazioni cresciute nei campi profughi hanno vissuto di aiuti, disimparando a coltivare la terra. Il Sud Sudan importa tutto, anche i pomodori che si vendono sulle bancarelle a prezzi iperbolici; l’unico prodotto a buon mercato sono, in stagione, i manghi caduti dagli alberi. I bambini sotto i cinque anni soccombono in numeri troppo grandi e poi c’è il record mondiale: qui si muore di parto più che ovunque altrove. Una ecatombe di madri, 2.054 per ogni centomila neonati (in Italia sono 12, in Germania 7).
Per risolvere tutto si fa affidamento sulla rendita petrolifera, che al momento garantisce il 98 per cento delle entrate. Dopotutto il Sud produce la gran parte dei 500mila barili estratti ogni giorno dal sottosuolo sudanese. Ma è proprio verso i pozzi di Bentiu, capitale dello stato di Unity e del greggio sudsudanese, che si stanno dirigendo le milizie di Peter Gadet. E per il petrolio si rischia il ritorno della guerra con il Nord, come di recente nel territorio ancora conteso di Abiey.
A sera, nei locali di Juba, gli espatriati europei si scambiano tra una birra e l’altra gli ultimi aneddoti sulla corruzione: le tasse, sistematico oggetto di contrattazioni sottobanco; la malfamata Traffic Police, avida di bustarelle. «Nuovo Paese, Nuovo Inizio».
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