by Editore | 24 Giugno 2011 6:50
zengcheng – Da qualche giorno sembrano represse, ma l’icona spezzata della propaganda post-maoista è ancora qui, non rimossa, sulla strada. È sorprendente che qualcuno a Zengcheng abbia avuto il coraggio di abbattere pubblicamente il verbo sacro della propaganda. Ancora più strano è però che la polizia e l’esercito del Guangdong, schierati per far cessare con le cattive le sommosse, abbiano dimenticato in mostra cocci tanto imbarazzanti.
Sono la testimonianza delle due Cine che dopo trent’anni si fronteggiano al primo avviso di rallentamento della crescita. La prima è quella ufficiale, in preda all’esaltazione rossa e patriotticamente arruolata per celebrare il 90º anniversario della fondazione del partito-Stato. La seconda è quella sociale, consumata dalla delusione delle promesse del capitalismo comunista e collettivamente mobilitata per conquistare diritti altrove riconosciuti dalle democrazie. Il Guangdong è l’epicentro dello scontro e non è un caso se il vento delle rivolte di massa si è alzato dalla cassaforte del miracolo cinese. Il “motore del Sud” negli ultimi cinque anni è cresciuto a una media record del 12,4%.
Per i prossimi cinque ha dovuto ridimensionare le stime all’8%, proiettando l’ombra dell’incertezza su una frenata nazionale al 7%. La regione-fabbrica produce però l’11% del Pil cinese e un terzo delle esportazioni: per questo il messaggio che il “Guangdong non è felice”, bruciante smentita della campagna “Felice Guangdong” lanciata a gennaio dal governatore Wang Yang, agita il potere di Pechino. La crisi, nell’appiglio estremo della resistenza economica globale, non è del resto scoppiata l’altra settimana, quando decine di distretti industriali sono stati messi a ferro e fuoco. A Shenzhen il colosso Foxconn da un anno è minato dai suicidi in serie degli operai. I primi scioperi di successo sono scoppiati poco lontano, nelle catene di montaggio delocalizzate della Honda. A Meishan, da lunedì, 4 mila operaie di una fabbrica di borse, che produce per i marchi più esclusivi del pianeta, sono in sciopero contro turni da 12 ore al giorno per 100 euro di paga mensile. Può dunque apparire anomalo che l’attentissimo governo centrale di Pechino, impegnato nella transizione del potere dal 2012, si sia lasciato sfuggire il controllo della spina dorsale della sua legittimazione. Una settimana di guerriglia urbana, dilagata nello Zhejiang, nell’Hubei e nel Jiangxi, in Cina non si vedeva della rivoluzione di Mao.
L’allarme è però scattato dalla constatazione che non solo il Guangdong non è più felice. Alla colonna meridionale dell’industria si è aggiunta quella delle materie prime, con la grande rivolta del Nord, nella Mongolia Interna delle miniere. E si aggiungono Shanghai ad Est, dove la Borsa non smette di scendere da mesi e manca l’energia elettrica per affrontare l’estate, e infine a Ovest anche Chongqing, considerata la nuova frontiera dello sviluppo hi-tech. Qui, stando alla propaganda, le cose vanno a gonfie vele. Nel Far West defiscalizzato dell’Impero migliaia di capannoni e di grattacieli sono invece deserti, 32 milioni di abitanti vivono intossicati e solo il pugno di ferro di Bo Xilai, principino nascente del partito, frena lo strapotere mafioso delle triadi. Al fallimento dell’ “Happy Guangdong”, sconvolto dalle nascoste sommosse operaie, corrisponde così il trionfo delle “Lezioni di entusiasmo rosso”, esportate da Chongqing per le nuove masse di inarrestabili migranti. Tra i due poli cinesi della produzione e della propaganda non si gioca però solo la sfida tra Wang Yang e Bo Xilai, tesi a contendersi l’egemonia nel prossimo Politburo. Lungo tale rotta, tra le canzoni della bandiera rossa e le sassate delle tute blu, si decide il destino della nazione candidata a guidare il mondo nel secolo contemporaneo.
I tremila dirigenti comunisti e gli ottanta milioni di iscritti al partito applaudono al kolossal sulla fondazione del Pcc e si disputano due milioni di copie e duecento titoli sul proprio successo, «regalo sontuoso per il compleanno nazionale». I 280 milioni di migranti interni e i 540 milioni di operai iniziano invece a non accettare più «lo schiavismo di Stato» e a lottare per conquistare «una vita con meno armonia e più dignità ». Solo ora si comincia così a intuire l’inquietudine di Pechino davanti alla minaccia di una Rivoluzione dei Gelsomini, messa in scena a fine gennaio. Il Guangdong, Chongqing, Shanghai e la Mongolia Interna, i quattro poli dell’ascesa cinese, sono sconvolti da crisi locali, ma compongono il quadro di una medesima emergenza nazionale: il passaggio della Cina da un sistema economico fondato sulle esportazioni ad uno basato sul consumo interno e la sua mutazione sociale da universo agricolo a galassia di megalopoli. Zengcheng è un concentrato esplosivo anche di questo azzardo. Nell’ultimo anno, dopo l’aumento degli stipendi medi a 187 euro al mese, il 34% delle aziende ha chiuso e su 818mila residenti, gli immigrati hanno sfondato la soglia di 502mila. Se l’Occidente avesse proseguito al galoppo, il prodigio dell’Oriente avrebbe potuto riprodursi. Il meccanismo invece s’è inceppato. A Ovest sono calati gli ordini e saliti i debiti, ad Est si sfoltiscono le fabbriche ed esplode l’inflazione.
Affinché il disagio economico muti in dissenso politico e i molti tumulti in una rivoluzione, mancano le forze capaci di sintetizzare un’opposizione. In tutto il Paese appare però evidente la nascita di un blocco sociale accomunato da un’ostilità al potere sconosciuta da decenni. Operai schiavizzati, contadini espropriati, neolaureati disoccupati, colletti bianchi indebitati, migranti senza diritti, anziani senza welfare, dissidenti incarcerati, gruppi etnici colonizzati e aspiranti candidati indipendenti perseguitati, formano un’inedita massa a-ideologica decisa a non festeggiare il prossimo genetliaco della nomenclatura rossa.
La Cina scala posizioni all’estero, ma si scopre corrosa da sotterranee debolezze interne: salari inaccettabili, inflazione fuori controllo, prezzi alimentari alle stelle, insufficienza energetica, disoccupazione in crescita, esplosione del divario tra ricchi e poveri, funzionari corrotti, polizia incline agli abusi, costo degli immobili insostenibile, servizi sociali inesistenti. I nipoti di Mao Zedong si svegliano così avversari dei figli di Deng Xiaoping e una classe dirigente invecchiata si rivela idonea a negare libertà , ma inadeguata a convertire la violenza in salute della crescita. Il partito prende atto che novant’anni, senza riforme strutturali, più che il traguardo di una longevità politica sono il capolinea di un autoritarismo. Giorni fa, mentre i leader di Pechino rivolgevano enigmatici appelli a «migliorare la gestione sociale», un documento della Banca centrale del Popolo ha rivelato che nell’ultimo decennio 18mila funzionari sono scappati all’estero con 90 miliardi di euro e che le proteste di massa sono passate da 9 a 180mila. L’invincibile partito si autocelebra per succedere a se stesso, compra debiti e ideali stranieri, finge di liberare Ai Weiwei e lascia in cella centinaia di intellettuali indipendenti.
L’infinita e silenziosa Cina è al contrario scossa come mai dopo il 1949 e il 1989. A Guangzhou, per individuare gli insorti, le autorità hanno dovuto offrire ai delatori 500 euro e il permesso di residenza. Non era mai successo: un piccolo tesoro in cambio di un grande colpevole. Non è solo che il Guangdong è tutt’altro che “happy”: è che Pechino, risolvendo Mao in un ritratto, scopre di non essere più nel cuore dei cinesi. E che a Zengcheng il cartello “Servire il Popolo” può rimanere rotto, davanti ad auto e negozi bruciati.
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