Tra Crozza e i tormentoni la via auto-ironica del potere

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“Una risata vi rianimerà “, ecco il nuovo volto del comico in politica. L’esempio lampante è quello di Bersani, che da Crozza è stato resuscitato, e annuncia delle tournées in cui sarà  complicato capire chi sia il comico. L’elenco di metafore barocche che il 27 maggio scorso è stato fatto nel duetto televisivo (“Oh ragassi siamo mica qui a far la permanente ai cocker”, “siam mica qui a smacchiare i giaguari”, “siam mica qui a rompere le noci a cip e ciop”) ha trasformato in volontario e in consapevole quel tasso di umorismo inespresso e involontario che invece azzoppava i manifesti in cui Bersani, in maniche di camicia, proclamava “Rimbocchiamoci le maniche e mettiamoci a sognare” (suggerendo altri strampalati pendant, come ad esempio “Mettiamoci il pigiama e andiamo a lavorare”). Qui la comicità  difendeva Bersani da sé stesso e gli ritagliava una figura nuova. Mostrando, per la prima volta, una sorta di autonomia culturale dai temi e dai modi degli altri, dall’agenda delle risposte standard che il centro-destra, negli ultimi 20 anni, aveva sempre imposto.
Nel caso di Pisapia, invece, è stato facilissimo sfruttare l’intrinseca comicità  delle accuse che gli erano state rivolte, di rubare le auto, di essere matto, di voler fare Zingaropoli, di trasformare Milano nella Stalingrado d’Italia, di prendere il caffè con i centri sociali (come se fosse possibile prendere il caffè con delle istituzioni, sia pure alternative). Ed è così che, tre giorni dopo il duetto Crozza-Bersani, Massimo Cirri ha elencato in Piazza Duomo, per la chiusura della campagna, tutte le colpe di Pisapia, che vanno dall’aver votato Pupo e Filiberto all’aver inventato la Duna, dall’usare i copertoni per i barbecue all’aver ferito Garibaldi ad una gamba. Qui abbiamo la misura di quanto siano lontani i tempi in cui – correva il 1980 – per rivelare tutta la propria sfiducia verso la politica, il comico francese Coluche aveva dichiarato l’intenzione di “scendere in campo” alle presidenziali, candidandosi contro Mitterrand e ricevendo l’approvazione di intellettuali come Deleuze e Guattari o Bourdieu. 
Coluche era prima tappa, l’irrisione di tipo situazionista, di un processo che si potrebbe definire “fenomenologia dello spirito”, che nella fattispecie riguarda non lo sviluppo della coscienza in cammino verso lo spirito inteso come Geist, come in Hegel, bensì l’evoluzione dell’uso dello spirito (inteso come Witz, come arguzia) in politica, orientato verso l’autocoscienza o la presa di coscienza. Il situazionismo di Coluche era ancora legato alle vecchie vignette che deridevano i potenti, alle pasquinate, e alla immane risorsa, sempre disponibile, della comicità  involontaria, di cui ancor oggi abbiamo campioni monumentali in ogni ambito della sfera pubblica. In più c’era solo un po’ di spirito del ’68, che voleva al potere, insieme all’immaginazione, anche la comicità , visto che allora il potere era ancora ingessato. E proprio sulla ingessatura del potere aveva fatto leva Benigni quando, in quegli stessi anni, prese in braccio un Berlinguer imbarazzato. Dopo Coluche e Benigni, però, le cose si sono complicate, e i politici, non più ingessati e anzi scatenati in discoteca hanno capito quanto utile per la loro immagine fosse la satira. 
Di qui un’altra stazione della nostra fenomenologia, che è l’uso della barzelletta come strumento di promozione di immagine e persino di autotutela. Tipicamente, Berlusconi che scherza su Berlusconi togliendo l’iniziativa e il gusto di ridere ai dissenzienti. Alcuni potrebbero osservare che mai Mussolini avrebbe raccontato barzellette su di sé, e che è qui tutta la differenza tra il potere postmoderno e quello moderno o sacrale (gira sul web l’imbarazzantissima scenetta di un giornalista americano che racconta al Dalai Lama una barzelletta sul Dalai Lama, che però non capisce o non gradisce). Ma non è detto che a raccontare una barzelletta a Berlusconi su Berlusconi Berlusconi riderebbe. Forse simulerebbe una raffica di mitra, come ha fatto nella famosa conferenza stampa con Putin. Perché qui il tasso di autoidoleggiamento è troppo alto, e la satira preventiva serve a far ridere di meno, come le insistenze sul Bunga Bunga (il quale d’altra parte, ecco un altro rivelativo nesso tra comico e politica, ha origine da una barzelletta, è propriamente una barzelletta fattasi realtà ). In questo contesto, non stupisce che se un politico racconta barzellette ci possa essere un comico, come Grillo, che, in tutta serietà  scende in politica. 
Di fronte a una situazione di questo genere, quale può essere la risposta? I casi di Bersani e Pisapia suggeriscono una terza figura, l’autoironia, qualcosa che attenui il delirio carismatico (anzi, in termini hegeliani, “il delirio della presunzione”) che ha caratterizzato l’età  del populismo mediatico. In questo senso, prendendosi in giro, scelta tutto sommato più democratica del prendere in giro gli elettori, il politico si rivela autocosciente. E l’autocoscienza, ossia la consapevolezza dei propri limiti e il non travestirsi da superuomo, è una cosa importante, per capirlo non c’è bisogno di essere Hegel. Per esempio far ricorso all’autoironia eviterebbe al premier la convinzione che gli smacchi recenti siano da imputarsi ai comici (ma la colpa non era dei magistrati?) e non, per l’appunto, a certe sue barzellette fuori luogo, oltre che a motivi strutturali che sembrano sfuggirgli. 
Autocoscienza e autoironia conducono (secondo Hegel, ma, ripeto, anche a lume di buon senso) alla ragione. Il cui culmine, leggiamo nella Fenomenologia dello spirito, è la “ragione esaminatrice delle leggi” che consiste “nell’insistere fermamente su ciò che è giusto”. Dal che ci può venire un insegnamento in più, nell’epoca in cui i referendum hanno dimostrato quanto gli elettori siano stufi di scudi legali, condoni tombali e legittimi impedimenti.


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