by Editore | 28 Giugno 2011 7:16
BOR (SUDAN DEL SUD) – L’albero. Forse c’è ancora. Aveva dei rami imponenti che regalavano un’ombra stupenda. Daniel Deng ce l’ha ancora davanti agli occhi, come tante altre cose che si è lasciato alle spalle. Quando da bambino tornava da uno dei suoi giri e vedeva quest’albero, allora sapeva: sono quasi arrivato a casa.
«Qui non c’è più alcun albero», afferma Daniel Deng, che questo pomeriggio percorre la strada accidentata su e giù con la sua 4×4. Deng viveva con la sua famiglia in un Tukul, una capanna circolare, che il padre aveva costruito con legno, fango e tetto di paglia. Il padre lavorava come poliziotto nella città di Bor. Suo figlio, che allora aveva forse sette anni, era contento di poter entrare presto in una scuola missionaria. Purtroppo però non successe. Presto infatti iniziarono a volare le granate e scoppiò una grande guerra.
Sono passati 27 anni da allora, la più lunga guerra dell’Africa è terminata. E il Sudan quest’anno, molto probabilmente, verrà diviso in due Stati. Per molti di coloro che vivono nel Sud Sudan il 9 gennaio (la data in cui si è svolto il referendum, ndr) rappresenta pertanto la data più importante della loro vita. Nella capitale Khartum, la gente si sente da tempo sfruttata e oppressa. La maggior parte dei sudanesi del sud sono cristiani o animisti, che credono nelle divinità della natura. Si considerano africani, mentre i dominatori nel nord islamico, sentono di appartenere maggiormente al mondo arabo. Tuttavia in Sudan non ci fu una guerra religiosa, si trattava piuttosto di supremazia culturale e politica, di dipendenza e libertà , di controllo delle importanti materie prime. Una netta divisione tra arabi e africani in Sudan non c’è mai stata.
Nel sud la popolazione desidera da tempo la libertà e una vita migliore. L’indipendenza statale dovrebbe portare tutto questo. Se la pace con il nord durerà , questo non lo può dire nessuno. Vi sono alcuni focolai da cui potrebbe nascere una nuova guerra. Nord e sud non si sono ancora accordati sui loro futuri confini. Debiti e ricchezze devono essere suddivise. Il futuro della regione Abyei, ricca di petrolio, è ancora oscuro.
Inoltre, nel sud vivono diversi popoli rivali. Vecchie ostilità potrebbero riaffiorare, con o senza l’intervento del regime islamico di Khartum. Adesso però bisogna votare. Persino Daniel Deng non vede l’ora. «Una volta nella mia vita voglio vedere la mia gente veramente felice».
Con la sua Jeep visita i dintorni di Bor, la sua città . Sul pedale dell’acceleratore e del freno è avvitata una struttura che manovra con le mani e gli permette di guidare anche senza avere forza nelle gambe. La sua sedia a rotelle è in baule.
Ha abbassato il finestrino e guarda oltre gli arbusti, dove una volta c’era il grande albero. Sul ciglio della strada c’è un cartello con la scritta «World food program». Intorno non si vede nient’altro. Tutte le case che si trovavano una volta qui non ci sono più. Il cespuglio ha ricoperto tutto, tranne i ricordi di Daniel Deng.
Daniel Deng. Egli è tornato nel Sud Sudan. Vuole contribuire alla ricostruzione di questo nuovo Stato. Ha una trentina d’anni e fa progetti per il futuro. Grandi progetti. In sedia a rotelle. Deng è un uomo coraggioso. Anche se egli si è sempre sentito dire che era un codardo. Mentre qui si combatteva contro il nemico di Khartum, lui era via. Ora vuole occuparsi esclusivamente dei suoi progetti, questo stato deve rinascere – e non ricadere nel grande caos che ha tenuto prigioniero il Sud Sudan tutti questi anni.
Deng appartiene a un gruppo di sudanesi divenuti famosi come «lost boys». Bambini scomparsi in guerra. Un nome attribuito dai soccorritori che, attivando un imponente ponte aereo – «Operation lifeline Sudan» – cercavano di risolvere le situazioni di emergenza.
I «lost boys» hanno dato un volto all’orrore di quegli anni. Tra di loro anche molte bambine. Morivano di fame durante la fuga, venivano bruciati, ammazzati, picchiati. Ma Deng sostiene che questa sia solo una mezza verità .
Lost boys e mezze verità
È vero che alcuni di questi Lost Boys sono fuggiti dalle brutali milizie nemiche come i Janjaweed che oggi minano la sicurezza del Darfur. I bambini come Daniel Deng però, hanno vissuto la guerra in modo diverso. «Noi non eravamo scomparsi – afferma lui -. Siamo stati rapiti». Sono stati reclutati come bambini soldato dall’Esercito popolare di liberazione del Sudan (Spla) al servizio della ribellione. Tutto è iniziato quando Deng viveva ancora a Bor. Il 16 maggio del 1983 alcune unità sudanesi dell’armata nazionale si ribellarono. Un certo John Garang de Mabior avrebbe dovuto annientare la rivolta, invece si insediò a capo della stessa. Solo due decenni più tardi, con il trattato di pace del 2005 si sarebbe posto fine alla ribellione.
Gli uomini nel Sudan del Sud conoscono una pace solo fittizia. Dall’indipendenza del 1956, il più grande stato dell’Africa ha vissuto tre guerre devastanti – due nel sud del paese, una ad ovest, nel Darfur. Oltre due milioni di persone sono morte e quattro milioni sono fuggite oppure sono state condotte fuori dal paese dai ribelli, come racconta Daniel Deng. Ogni famiglia di quella zona doveva dare qualcosa. Cinque mucche – o un bambino. Chi si rifiutava veniva picchiato. Fu così che anche Daniel e sua sorella finirono a rinforzare l’esercito dei ribelli. Furono costretti a recarsi ad est, fino in Etiopia, a piedi.
Forse c’è un lato positivo in tutto questo, pensava il padre. Aveva sentito che al di là del confine c’erano delle scuole. Voleva che i figli imparassero qualcosa e la nuova guerra a Bor annientava queste speranze. Fuggirono dalla città e tornarono al loro paese, a Kongor. Qui scuole non ce n’erano proprio. Il padre decise pertanto che la famiglia doveva andare via con Daniel e sua sorella. Era il 1989. «Tra tutti i bambini io ero il più fortunato poiché i miei genitori erano con me». La maggior parte degli altri se ne sono dovuti andare da soli.
Deng rivede il suo paese per la prima volta dopo 18 anni . È il 2007. Qui tutto è distrutto. Delle persone rimaste, ne conosce ben poche, la maggior parte di quelle di cui si ricorda sono morte. La cosa peggiore, però, è che la gente non capisce di cosa stia veramente parlando l’uomo in sedia a rotelle.
Forse perché lui parla di prospettive: nei suoi discorsi Deng s’immagina il futuro, vive di processi, di commercializzazione, di giurisdizioni, di istituzioni e democrazie. Deng ha studiato economia gestionale e informatica negli Stati uniti. «Sono tornato qui con una mentalità americana». Deng è una persona pragmatica. Ma per rendersene conto devono lasciarlo agire almeno una volta. Non è così semplice in un mondo in cui posizioni importanti sono occupate dai veterani della guerra.
Deng sa di aver bisogno di una posizione elevata per poter smuovere qualcosa. È in contatto con il nuovo governatore dello stato federale di Jonglei per fargli da consulente. Si devono emanare delle leggi e stipulare contratti con aziende estere. Deng ha molte idee e vuole affermare i diritti degli invalidi. In una società segnata così profondamente dalla guerra, questo si sarebbe dovuto fare già da tempo.
Un territorio due volte la Germania
C’è molto da fare in questo territorio grande quasi il doppio della Germania. Nessun’altra regione del mondo è così poco sviluppata come il Sud del Sudan. Ha molte materie prime, soprattutto petrolio, però non vi sono strade, fabbriche, scuole e cliniche. La conoscenza e la ricchezza della Diaspora sono pertanto importanti. Ma uno come Deng lo volete veramente qui? «Il rapporto è difficile» sostiene lui. Quelli che rimpatriano sono visti da molti con sospetto. In molti pensano che siano scappati dalla guerra e ora vogliono avere voce in capitolo. Deng afferma: «Quando ti accorgi che nulla progredisce, fai le valigie e te ne vai». In questo caso lascerebbe nuovamente il Sudan – comunque lo farebbe in modo totalmente diverso da allora.
Subito dopo Natale iniziarono a marciare. Deve essere stato il 1989, dice lui. Non se lo ricorda di preciso. Non conosce nemmeno il suo anno di nascita. Il bambino aveva sentito cose strane sui primi gruppi che si erano messi in marcia. Molti non ce l’avevano fatta, si raccontava in paese. C’era troppo poco cibo. E i Murle, un popolo nemico, erano in agguato. Poi arrivò l’ordine di marciare. Camminavano in fila. Un uomo con un fischietto impartiva i comandi. Attraversò paludi, foreste e savane. Sempre in direzione est. Camminarono 45 giorni fino a raggiungere il confine etiope. Daniel Deng prima del confine tentò ancora una volta di fasciare i suoi piedi con un pezzo di stoffa. Ma non serviva più a nulla.
Quando raggiunse l’Etiopia, Deng era sopravvissuto alle aggressioni, ai Murle e ai leoni, alla fame e alla sete – solo alle pietre e alle spine no. I suoi piedi erano gonfi e sanguinanti. Non sarebbe riuscito a fare neanche un metro ancora, nemmeno con con i piedi bendati. Ma ce l’aveva fatta. Davanti a lui c’era l’Etiopia – ma non poteva immaginare che lo aspettasse qualcosa di molto peggiore rispetto a quello che aveva già passato.
Daniel Deng viveva ora a Pinyudo. Questo campo oltre confine di giorno era un campo profughi e di notte una base militare. Quando faceva chiaro gli aiuti internazionali provvedevano a fornire cibo: mais, farina e olio. Quando faceva buio, lo Spla faceva addestramento. Il governo Etiope in quel periodo era alleato dei ribelli sudanesi, qui trovavano sostegno e rinforzi.
«Le canzoni che cantavamo lodavano i nostri capi e offendevano gli arabi». Loro erano il nemico. Gli arabi. Tutti gli uomini del Sudan del Sud erano costretti ad attenersi a questo schema anche contro la loro volontà . Deng parla di lavaggio di cervelli. «Eravamo programmati a odiare i musulmani». Anche lui venne addestrato ad ammazzare il nemico. «Ma nel mio profondo non volevo uccidere».
Le sue gambe peggioravano sempre più. Zoppicava, per questo non venne mandato sul campo. Fu mandato pertanto a scuola. A dodici anni frequentava la prima all’interno del lager. Era ambizioso e voleva recuperare. Leggeva un libro dopo l’altro. Se suo padre fosse andato a scuola, non avrebbe sempre pensato che tutti gli arabi sono cattivi. Di questo Deng ne è convinto. Se più gente fosse andata a scuola, molti non avrebbero creduto a quello che gli si voleva far credere.
Di nuovo in cammino
Nel 1991 Mengistu, al potere in Etiopia, cade e viene così a mancare un importante alleato dello Spla. I sudanesi devono pertanto lasciare il lager. Il nuovo governo etiope faceva fuoco su di loro e l’armata del Sudan del Nord li bombardava. Fuggirono quindi nuovamente verso il Sudan. Lungo il ritorno il cibo scarseggiava e la sete era spesso causa di stenti. Daniel Deng ha visto gli altri morire. Quando suo cugino morì, per lui fu particolarmente dura. Ma loro dovevano proseguire, altrimenti sarebbero morti tutti. Quando Deng non ce la faceva più, lo portava suo padre. Così facendo riuscirono a superare montagne, deserti e fiumi impetuosi. Deng sapeva nuotare, altri no. Alcuni annegarono nel tentativo di raggiungere la riva opposta. Questo è il momento in cui Deng iniziò a vaneggiare. Vedeva montagne di cibo davanti a lui e ingurgitava tutto fino all’ultima briciola.
Aveva nostalgia del suo paese. Erano bei tempi quelli, quando si prendeva cura del bestiame di suo padre. «Sono un uomo», pensava allora. Aveva appena sei anni. Bastone, bottiglia d’acqua e la grande mandria – non aveva bisogno d’altro per essere un uomo felice del popolo dei Dinka. Loro mescolavano sempre un goccio di urina della mucca nel latte perché era più buono. E utilizzavano il letame bruciato per pulirsi i denti.
Nel 1992 raggiunse Camp Kakuma nel nord del Kenia. Rimase qui otto anni e continuò ad andare a scuola. Gli insegnanti devono aver notato la sua bravura in quanto passò dalla prima alla quarta classe e poi dalla quarta alla sesta. Fino all’ottava. Il suo inglese era così buono che venne chiamato a lavorare come traduttore per gli aiuti internazionali.
Le sue gambe però non funzionavano più. Il medico del campo sosteneva fosse necessaria un’operazione. Deng era d’accordo ma qualcosa andò storto. Dopo l’operazione non camminava proprio più.Dopo otto anni in Kenia Deng potè andare in America. 3800 «lost boys» vennero presi in America. Egli fu mandato in Colorado.
Ma aveva una brutta sensazione quando pensava a tutti gli altri che erano rimasti in Sudan. Lui si applicava, lavorava e studiava. Ha conosciuto persone che lo hanno incentivato. Altre, che a causa del suo accento al telefono lo insultavano dicendogli «stupido messicano». Negli Usa è stato molto al telefono. Al Broadmoor, un hotel a cinque stelle, rispondeva al telefono e faceva sì che agli ospiti non mancasse nulla.
I dottori non hanno potuto fare molto per lui. Non è polio, hanno detto. Probabilmente la sua malattia è dovuta a cure mediche carenti quando era bambino e a degli sforzi troppo grandi. Il neurologo lo mandò dall’ortopedico. E l’ortopedico lo mandò dal neurologo. «Adesso mi curo da solo – dice Deng oggi – ho perso la fiducia nei medici». Ma la fiducia in sé stesso è ancora viva, se no non sarebbe qui. E forse questa forza la deve ai suoi genitori che lo hanno sostenuto durante il suo percorso. O per lo meno crede. Parla spesso di loro e di tutti gli altri che non avevano nessuno per superare l’esperienza della guerra.
Forse il tempo può curare alcune ferite ma per questo c’è bisogno anche di ricostruire. «Qui vi sono infinite possibilità – sostiene Deng -. Abbiamo così tanta terra. Quante cose si potrebbero fare».
Poi Daniel Deng ripensa al suo paese. Che bello che sarebbe. Con delle belle strade, una clinica e una scuola. Con negozi e officine. «Un vero e proprio paese». Se lo immagina così, mentre con la sua jeep passa da un buco della strada ad un’altro. «Il paese che sogno non lo vedrò mai» dice. Ma forse la generazione che verrà dopo di lui sì.
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