by Editore | 25 Giugno 2011 6:50
Due visioni del mondo si contrappongono: chi pensa che l’acqua, il lavoro, i saperi, la salute siano beni basici per la vita comune, obiettivi che costituiscono la ragione stessa dell’esistenza di una società organizzata, dall’altra c’è chi continua a pensare che natura e lavoro, materie prime ed intelligenza umana altro non siano che “mezzi” e “fattori” di produzione che la megamacchina termo-industriale debba sfruttare e sacrificare sull’altare dell’aumento della produttività e delle produzioni di merci. Da una parte c’è chi pensa che vi siano beni e servizi con valori incommensurabili, non scambiabili per mezzo di moneta, per la buona ragione che ve ne sono di insostituibili e irriproducibili; dall’altra c’è chi pensa che tutto possa e debba trasformarsi in denaro, attraverso cui è possibile soddisfare bisogni e desideri. Da una parte c’è il “sentire comune” di chi constata sulla propria pelle il fallimento di trent’anni di politiche economiche liberiste, dall’altra chi vive fin troppo bene lucrando sull’enorme bolla speculativa finanziaria, chi ha affidato le proprie fortune alle rendite e sulla droga del debito. Da una parte c’è chi pensa che si debba trovare un modo per vivere meglio – se non persino per gioire della vita – approntando e praticando forme di comune convenienza, di condivisione, cooperazione e reciprocità , dall’altra ci sono i Marchionne, i cultori dell’impresa capitalistica, più o meno “contrattualizzata”.
Per dare forza ai primi e sbarazzarsi dei secondi servirebbe una sfida a tutto tondo all’economia politica, una teoria e una pratica economica rovesciate: remunerare (non necessariamente salarizzare) il lavoro di cura e di rigenerazione dei cicli ecologici naturali, apprezzare (non “prezzare”) le risorse inutilizzate più di quanto venga fatto con quelle sfruttate, valorizzare (non “aggiungere” valore al capitale) il saper fare meno con meno, premiare la riduzione del tempo di lavoro e dei flussi di energia e di materia impiegati nel produrre gli oggetti d’uso.
Un’economia dei beni comuni è propria di una società che sceglie la sufficienza (che non forza la “scarsità “): saper fare ciò che serve con quello che si ha a disposizione; scambiare alla pari ciò che si ha e ciò che si sa fare, nella reciproca, consapevole convenienza. Solo così il “gioco” economico potrà risultare win win, a somma positiva, senza provocare distruzioni e senza creare iniquità insopportabili. Reti e distretti di economia solidale, banche del tempo, città de-carbonizzate, gruppi di acquisto, commercio equo, monete complementari, autogestioni, cohousing… già ci sono. Manca solo che i soggetti protagonisti si rendano conto del valore politico intrinseco delle loro azioni.
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