Teleperformance, la Cgil chiede conto al governo

by Editore | 16 Giugno 2011 7:46

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Un’altra «Fincantieri» si aggira per il Paese, ma non ha il risalto mediatico e l’attenzione politica che merita. Eppure anche questa vertenza è rappresentativa dei mali del nostro sistema produttivo, dell’assenza di una politica industriale, dell’irresponsabilità  delle grandi aziende. Si tratta del caso della multinazionale Teleperformance. Un call center che occupa tremila persone tra Fiumicino, Roma e Taranto e che due mesi fa ha avviato la procedura per licenziare oltre 1400 dipendenti, probabilmente con l’obiettivo di lasciare il nostro Paese, passando per un periodo più o meno lungo di cassa integrazione a zero ore, generalizzata.
Nel 2007 questa azienda, insieme a molte altre, stabilizza i propri precari, grazie alla circolare Damiano, all’azione del sindacato e a una politica di ispezioni contro le imprese irregolari. Mentre i suoi diretti competitor fanno della stabilizzazione un punto di forza, modificando il proprio portafoglio, dandosi un’organizzazione del lavoro in grado di sfruttare una forza lavoro meno soggetta a turn over (tanto da giungere al pareggio se non a un primo utile), l’azienda francese evita di riposizionarsi sui nuovi mercati, fino a giungere ad aprile 2010, quando annuncia quasi 850 esuberi.
Dopo una lunga vertenza si giunge a un accordo: i circa tremila lavoratori andranno in «solidarietà » in deroga (quindi a carico della fiscalità  generale), in cambio Tp si impegna a investire 15 milioni di euro «con il fine strategico di consolidare e sviluppare le commesse, le quote di mercato, di fatturato e di redditività  in Italia». Il sindacato – e Slc Cgil in particolare – accompagna l’accordo, e si attiva con il governo perché alcuni problemi strutturali del settore vengano risolti (la ripresa della gare al massimo ribasso, l’assenza di una politica di ispezioni contro le imprese irregolari). Tanto che si giunge, nel luglio del 2010, a una serie di proposte condivise tra tutte le parti sociali, consegnate al governo e i cui costi minimi (parliamo di alcune decine di milioni di euro) metterebbero in sicurezza il settore, valorizzando una competizione sulla qualità  e non meramente sul (già  basso) costo del lavoro.
Quel documento però si «perde» in qualche corridoio ministeriale, mentre Tp beneficia dei contributi pubblici senza rispettare gli impegni presi. Invece di valorizzare le attività  in Italia assistiamo alla delocalizzazione di commesse (in primis Alitalia e Sky) verso l’Albania, dove Tp ha aperto una nuova società  che occupa migliaia di persone. Senza considerare i gravi rischi per la privacy dei clienti italiani, insomma, la multinazionale prende lavoro in Italia e lo porta all’estero.
Inascoltati si giunge al 14 aprile 2011: Tp annuncia ulteriori 1464 esuberi, con in più la faccia tosta di dare al «mercato cinico e baro» tutte le colpe. Nel frattempo, ovviamente, Tp ha continuato a beneficiare degli ammortizzatori in deroga, delle risorse regionali per l’occupazione e la formazione, ecc. Siamo all’impresa irresponsabile, al governo assente, al rischio di impresa trasferito interamente sui lavoratori. Ora attendiamo che il governo si faccia parte attiva e protagonista. Innanzitutto per avere garanzie certe ed esigibili sulla reale volontà  di Tp di rimanere in Italia. Il 21 giugno ci sarà  finalmente il primo incontro presso il ministero dello Sviluppo economico. Come Slc Cgil chiederemo innanzitutto di sapere perché gli impegni presi non sono stati mantenuti, cosa è cambiato rispetto a quanto dichiarato un anno fa. Soprattutto chiederemo al governo di farsi garante di eventuali impegni che non possono più rimanere sulla carta. Siamo sempre stati pronti a fare la nostra parte in termini di sacrifici, ma occorrono segnali chiari, a partire dal rientro in Italia del lavoro portato all’estero e ad investimenti economici su nuovi servizi reali, misurabili nel tempo.

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