Spazio agli architetti (e al futuro) Consigli da Londra, la Milano inglese

by Editore | 1 Giugno 2011 6:19

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Qualche milione d’abitanti, un fiume, un impero a domicilio, un parlamento, una famiglia reale allargata: le differenze tra Milano e Londra sono evidenti. Ma c’è qualche punto di contatto. La capacità  di rinnovarsi; l’abitudine a vivere sulla prua della nazione, prendendo il vento in faccia; la capacità  di accogliere connazionali e stranieri; la passione per i soldi, i saldi, la musica, gli aperitivi, il weekend, i libri e il pallone. Non a caso Milano è— insieme a Genova— la città  più anglofila d’Italia. Se non diventa un vezzo (il patetico gessato sotto il sole di giugno), è la prova di un’aspirazione. Londra, oggi, contiene suggerimenti utili in materia di traffico e trasporti, gestione dei rifiuti e architettura: cose che segnalano la civiltà  e gli umori di una città . Il settimanale Time Out (perché a Milano non esiste?) nel 2008 ha raccolto in un volume (London Calling) i migliori contributi apparsi in quarant’anni (è uscito nel 1968). Tra i più interessanti, «Death of Little Britain» , la morte della piccola, nostalgica Gran Bretagna, del 1984. Vivevo a Londra e ricordo il periodo. La città â€” per volontà  di Margaret Thatcher e non solo— decise di marciare verso est e utilizzare la zona del porto dismesso. Nascevano le Docklands. Un territorio desolato — Kubrick ci aveva girato Full Metal Jacket, film sulla guerra in Vietnam— diventava uno dei più spavaldi esperimenti urbani dell’Occidente (Canary Wharf, City Airport, Dockland Light Railway). Londra non ha mai avuto paura dell’architettura moderna, perché non ha paura del futuro: tanto, sa che arriva comunque. I Lloyd’s di Richard Rogers (1986) e il Millennium Bridge (2000) di Norman Foster, che poi ha rifatto Trafalgar Square (2003) e costruito Wembley (2007): Londra usa i suoi architetti, Milano ne diffida e li allontana (chiedere a Renzo Piano). Un luogo speciale come la Darsena, fosse stato a Londra, non sarebbe diventato una fogna a cielo aperto. Nessuno, dalle parti del Tamigi, può permettersi di bloccare la città  con cantieri infiniti (notizie di piazza Novelli?). I londinesi sono civili, buoni, disinteressati? Non esistono lungaggini, fallimenti, appetiti, manovre? Certo che esistono, e non da oggi. Andate a leggervi «London Fields» di Martin Amis, guardate «RocknRolla» di Guy Ritchie, chiedete ai residenti cos’è stato il triennio anfetaminico 2005-2008, prima dell’inevitabile umiliazione finanziaria. Londra non è un ritrovo di chierichetti. Ma a nessuno è consentito fregare il prossimo, e vantarsene; né frenare il destino comune. Che non è fatto solo di nuove costruzioni, ma soprattutto di sistemazioni (National Gallery Extension), riutilizzi (South Bank, per secoli la parte indesiderabile della città ), conservazione (Covent Garden) e correzioni in corsa: il Dome, deriso e inutilizzato dal 2000 al 2007, oggi è il più frequentato palazzo per concerti delmondo. A Londra e nel Sud-Est, che rappresentano un dodicesimo del territorio nazionale, vive un quarto della popolazione britannica (più 400 mila francesi, 300 mila arabi, 200 mila italiani etc). In sostanza, c’è il tutto esaurito. Mentre Manchester, negli ultimi venti anni, ha perso il 15%degli abitanti, la popolazione della capitale è aumentata dell’ 8%. Quarant’anni fa il 60%della grandi società  britanniche aveva base a Londra; oggi siamo al 90%. Ecco perché nella metropoli — sebbene disponga di collegamenti ferroviari che Milano o Roma si sognano— il viaggio-medio verso il posto di lavoro nel 2003 durava 56 minuti; e nel 2015 sarebbe diventato 100 minuti. Ogni tentativo di allargare le strade si era infatti rivelato inutile. Appena la M25 (tangenziale/raccordo anulare) è stata ampliata, il traffico è aumentato in proporzione. La soluzione l’ha trovata otto anni fa l’allora il sindaco Ken Livingstone, populista pratico, abile e furbo: introdurre un congestion charge, un «addebito per la congestione» , papà  di tutti gli Ecopass. Chi vuole entrare in auto a Londra nei giorni feriali, dalle ore 7 alle ore 18, deve pagare: prima £ 5, oggi £ 10. Molti londinesi, di fatto, hanno rinunciato all’auto: di giorno per traffico e costi; di sera perché vogliono bersi mezza bottiglia (drink & drive, nel Regno Unito, viene punito con ferocia cromwelliana). È giusto, anzi inevitabile. Le nostre città  sono nate ieri: non sopportano il traffico di oggi. Non parliamo del posteggio metodico in doppia fila, dei marciapiedi-parcheggio o dello shopping a quattro ruote: vero, Milano? E il trasporto aereo? Londra è una sala d’attesa chiusa tra cinque aeroporti. I due runways di Heathrow vedono atterrare e decollare 66 milioni di passeggeri l’anno. Boris Johnson — sindaco biondo, brillante e turbolento— vuole raddoppiare (quattro runways), oppure costruire un nuovo aeroporto su un’isola artificiale nell’estuario del Tamigi (subito soprannominata «Boris Island» ). Lo squattrinato governo nazionale— guidato dal conservatore Cameron, amico e coetaneo — non ne vuol sapere. Detto ciò, provate a pensare: Milano ha aperto l’ultimo aeroporto del XX secolo (Malpensa 2000, nato vecchio e collegato male); e nicchia sull’estensione del metrò fino a Linate, una priorità  assoluta (c’è l’Expo, santo cielo!). Londonism, lo chiamano: la combinazione tra senso degli affari (di destra?) e spesa pubblica per infrastrutture (di sinistra?), ritualità  (conservatrice?) e tolleranza (liberale?), forza dell’establishment (tradizionale?) e passione cosmopolita (progressista?). Il milanesismo— se ci pensate— è tutte queste cose. Milano non è né il feudo di un uomo (di destra) né un campo-giochi per nostalgici (di sinistra). È la nostra Londra, la nostra Berlino e la nostra New York: la città  più aperta ai connazionali e agli stranieri, la città -laboratorio, la città  che ogni tanto si piega, ma poi scatta come un arco, e scaglia lontano le sue frecce. Ogni tanto centrano il bersaglio, per fortuna di tutti.

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