Siria: 1300 uccisi nella repressione, vietato l’accesso a giornalisti e Croce Rossa

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C’eravamo tanto amati. Era successo con Gheddafi, dove le cancellerie europee per anni lo avevano accolto come un partner affidabile (e non un criminale) e il copione si ripete con Assad. Nel 2000, quando Bashar succede al padre, l’Occidente lo accogli come “il riformatore”. Iniziano una serie di incontri tra il presidente siriano e i leader occidentali. Le relazioni con Ankara, che a causa della questione curda e dell’ospitalità  data da Damasco al leader del PKK non erano mai state serene, si distesero.

Sarkozy, Blair, Erdogan, oggi, lo scaricano e chiedono a Consiglio di Sicurezza dell’Onu una risoluzione di condanna. Ma la Russia in testa avverte: “Siamo contrari ad ogni risoluzione Onu contro la Siria, che per noi non rappresenta alcuna minaccia alla sicurezza e alla pace nel mondo”.

Sul campo, intanto, la situazione è tragica. Dal sud del Paese, dove le proteste erano iniziate, si sono spostate al nord. Ieri mattina i soldati fedeli ad Assad sono entrati nella città  settentrionale di Jisr al-Shugur, sotto assedio da venerdì, quando, per reprimere i manifestanti pro-democrazia, Damasco ha inviato carri armati ed elicotteri da guerra. Secondo Damasco, nella città  sono presenti circa 2mila uomini armati e testimoni riferiscono che la battaglia è ancora in corso. Nei giorni scorsi, testimoni che avevano attraversato il confine con la Turchia, avevano riferito di una città  deserta, ad eccezione di circa 5mila abitanti, sui 50mila, rimasti per difendere le proprietà  dalle bande di saccheggiatori.

Proprio nella città  di Jisr al-Shugur, secondo la televisione siriana megafono della dittatura, oltre 120 membri delle forze di sicurezza sarebbero stati uccisi nei giorni scorsi da quelle che vengono definite “bande di terroristi armati”. Diversa la versione dei comitati siriani, secondo i quali, gli agenti, sarebbero stati uccisi da elementi dell’esercito perché “si sono rifiutati di sparare sui manifestanti”.

Storie che, vengono confermate sul confine turco, nella città  di Guvecci. Tahal Al-Lousha, una volta al sicuro sul lato turco, non nasconde la sua identità . Mostra ai giornalisti il suo tesserino militare e rivela la sua identità . Ha lo sguardo perso nel vuoto e racconta le atrocità  che ha visto nella città  di Ar-Rastan, una cittadina di 50mila abitanti nella provincia di Homs. “Ci hanno portato li – racconta – dicendoci che c’erano uomini armati. Quando siamo arrivati abbiamo visto che erano semplici civili. Ci è stato detto di fare fuoco”. Il soldato racconta anche che i suoi compagni entrano nelle case “stuprano le donne davanti a bambini e mariti”.

Anche Mohamed Khalaf Mirwan è stato un soldato di leva di stanza a Iblid, vicino al confine con la Turchia. E anche lui, come Tahal è ossessionato dalle violenze contro la popolazione inerme. “Mentre camminavamo – racconta – un soldato ha tirato fuori un coltello e ha pugnalato al cranio un civile, senza motivo”. Ha deciso di disertare, come il fratello Ahmed Khalaf, anche lui in una unità  dell’esercito siriano, deciso a disertare dopo le violenze nella cittadina di Homs. “Dopo aver visto uccidere persone innocenti, mi sono reso conto che il regime era pronto a uccidere tutti”, dice. “Hanno posizionato i cecchini nei punti alti della città  – racconta ancora – e tra loro ci sono poliziotti in borghese e miliziani di Hezbollah”. Walid Al-Khalaf ha anche confermato il pericolo di insubordinazione tra le file dei militari. “Prima della nostra diserzione – spiega – sei nostri compagni volevano fuggire ma sono stati uccisi”. I disertori prevedono anche un crollo del regime, in quanto, riferiscono, “tutti i soldati che conosciamo sono stressati e vorrebbero fuggire. Prima o poi lo faranno”.

Intanto, al confine turco, lungo più di 800 chilometri, le autorità  turche hanno fatto sapere che oltre 5000 persone hanno attraversato il confine sud-ovest per cercare riparo dalle violenze del regime. Si tratta in maggioranza di donne e bambini, accolti nelle tendopoli della Mezza Luna Rossa nei Paesi di Yayladagi e Altinouz. La Casa Bianca ha condannato la repressione, parlando di “massacro” e il segretario dell’Onu Ban Ki-Moon ha definito la repressione “inaccettabile”. Ma mentre la burocrazia internazionale invia dichiarazioni di sdegno, in Siria si registrano 1300 persone uccise e oltre 10mila arrestate. E l’accesso alle zone delle proteste non è negato solo ai giornalisti, ma anche alla Croce Rossa Internazionale.


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