Se il nostro sguardo è sempre culturale

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Se il personaggio immaginato da Jerzy Kosinski e interpretato al cinema da Peter Sellers avesse avuto modo di leggere Guardare Pensare Progettare. Neuroscienze per il design, il libro di Riccardo Falcinelli appena edito da Stampa Alternativa & Graffiti, si sarebbe reso ulteriormente conto della quota di vertiginosa complessità  intrinseca a ogni nostra percezione visiva. E avrebbe probabilmente constatato che il cervello è una trappola che cattura lo spazio, che lo imprigiona e al contempo gli permette di sprigionarsi, dunque il cervello è la cosa dove tutto accade, dove il fuori diventa dentro senza smettere di stare fuori, dove sinergia e sincretismo non sono circostanze eventuali bensì condizioni strutturali. Perché in quel tutto che è il nostro cervello, tutto funziona simultaneamente e in relazione.
Nella prima parte del suo studio Falcinelli ci conduce allora nell’esplorazione dell’occhio e del cervello chiarendo che il percorso che si sta compiendo non è per nulla scontato: «Paradossalmente il cervello umano capisce benissimo le macchine e i meccanismi, ma fatica a capire i processi organici. Del resto, come ha detto qualcuno, il cervello non si è evoluto per capire se stesso, e, fra tutte le discipline, la biologia è quella che più ci pare controintuitiva, perché cerchiamo di smontarla come facciamo con le macchine, cercandone il funzionamento mentre dobbiamo coglierne il divenire, l’incessante trasformarsi». E questo incessante trasformarsi biologico, nel connettersi a tutto ciò che non è in senso stretto corporeo, dà  luogo a quel cortocircuito fisiologicamente straordinario che è il nostro sguardo sulle cose.
La visione – chiarisce infatti Falcinelli attingendo alla sua attività  di art director in ambito editoriale (minimum fax ed Einaudi Stile Libero), nonché a un impressionante studio critico delle più recenti acquisizioni delle neuroscienze – è un processo molteplice; non mobilita soltanto l’apparato visivo ma è intersensoriale, non promana solo dal biologico perché ogni atto visivo è in sé necessariamente culturale. Ciò che di fatto vediamo, il cosa, dipende dunque sempre dal come, e il come concentra al proprio interno, ancora, una dimensione fisica (l’angolo visuale, per esempio) e uno stato d’attivazione psicologica – desiderio, timore, curiosità , le diverse condizioni che connotano ogni storia individuale.
Ma storia individuale dello sguardo vuol dire anche, necessariamente, storia collettiva, confronto col substrato sociale e dunque, ancora una volta, riconoscimento dell’influenza dei diversi filtri culturali che danno forma a consistenza alle nostre percezioni. Essere disponibili alla storicizzazione del proprio sguardo, porsi il problema del modo in cui un uomo del Quattrocento poteva osservare lo spazio – e delle differenze, a volte clamorose, tra la sua pratica del mondo e la nostra – ci permette di non dare nulla per acquisito e indiscutibile e di smaltire i luoghi comuni e le idealizzazioni che spesso incrostano il nostro sistema di conoscenze, anche quelle relative alla fenomenologia. Che, scrive Falcinelli, è di fatto l’oggetto principale delle sue riflessioni. Se infatti per fenomenologia si intende, con l’autore, una “disposizione discorsiva dell’apparire”, dunque un lavoro di invisibile connessione logica di ciò che è in sé frammentario, allora ci si rende conto che buona parte della nostra vita sensoriale è una piccola ininterrotta battaglia per trasformare ciò che è destrutturato e puntiforme in un’esperienza lineare, in forma, disegno, produzione di senso.
«Guardare consapevolmente è già  pensare; e pensare consapevolmente è già  progettare». In questo senso il libro di Falcinelli – non un classico manuale fondato su descrizioni e prescrizioni bensì un testo critico e dubitativo – è quella diottria supplementare che ci consente di vedere meglio il nostro sguardo al lavoro.

 


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