Salari, welfare e servizi pubblici nel mirino, l’austerità  permanente imbriglia la democrazia

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PARIGI – La decisione era stata presa nel maggio 2010, quando la Germania, obtorto collo, aveva accettato di soccorrere la Grecia (col piano di «aiuti» in corso Ue-Fmi di 110 miliardi, la cui quinta tranche, di 12 miliardi, è stata bloccata l’altro ieri in attesa che il parlamento di Atene approvi il prossimo pacchetto di austerità /privatizzazioni). Perché tutti applicassero la «cultura della stabilità » cara a Berlino, è stato concepito il Patto per l’euro, che domani sarà  al vaglio del parlamento europeo e, dopo domani, del Consiglio europeo. José Manuel Barroso, presidente della Commissione, l’ha battezzato «rivoluzione silenziosa». Si tratta difatti di una svolta, di fatto già  in atto: le economie europee sono gestite da un pilota automatico nell’ambito del cosiddetto «semestre europeo». Le finanziarie dei paesi membri, nei primi sei mesi dell’anno, sono esaminate da Bruxelles e dai partner, con particolare attenzione per l’eurozona, per verificare se tengono conto delle «raccomandazioni» della Commissione per risanare le finanze pubbliche. Nei secondi sei mesi dell’anno, la finanziaria passa al vaglio dei rispettivi parlamenti nazionali. Che si trovano, nei fatti, privati di margini di manovra. Al punto che il presidente francese Sarkozy, sventolando l’esempio tedesco, ha persino pensato – prima di cambiare idea – d’inserire l’obbligo del bilancio in equilibrio nella Costituzione (ma si è reso conto di non avere i numeri per farlo passare al Congresso, dove Assemblea e Senato uniti votano a maggioranza qualificata).
Il Patto per l’euro 2011 prevede un inasprimento del Patto di stabilità  di Maastricht. Ad ogni stato viene imposto un ritmo minimo di riduzione dei deficit, pari allo 0,5% del pil l’anno. Inoltre, ogni stato deve ridurre di un ventesimo l’anno l’indebitamento che supera il tetto massimo del 60% del pil stabilito da Maastricht. Se un paese promette ma non mantiene, verrà  multato: un’ammenda salata, tra lo 0,2 e lo 0,5% del pil. Il Consiglio europeo, formalmente, può opporsi, ma solo se raggiunge una «maggioranza qualificata» (praticamente impossibile da ottenere se la Germania e i «virtuosi», Olanda, Austria, Finlandia, si oppongono).
Il Patto per l’euro affronta un problema reale della zona euro: c’è una moneta comune, ma manca una politica economica (e fiscale) comune, il difetto di origine dell’euro. Jean-Claude Trichet, presidente della Bce, ha proposto la nomina di un ministro delle finanze dell’eurozona, per colmare il vuoto politico che attornia l’euro. Tutte queste soluzioni sono proposte per evitare lo scenario catastrofico di un’esplosione della zona euro e del ritorno, per i più deboli, a monete nazionali svalutate, che si troverebbero nell’impossibilità  di rimborsare debiti contratti in euro, una moneta forte (destinata a salire se si trasformerà  nell’«euro tedesco», con i soli paesi virtuosi accanto alla Germania).
Il Patto per l’euro è però un cortocircuito della democrazia, un federalismo a metà , fatto di meccanismi automatici che non lasciano spazio alle scelte politiche. Secondo Attac, con questo sistema «le politiche di austerità  diventano un obbligo permanente, assortite di sanzioni automatiche per i cattivi allievi che non adottano lo pseudo-rigore, cioè il calo dei salari, i tagli ai servizi pubblici e alle prestazioni sociali, la precarizzazione del lavoro, un fisco ancora più favorevole alle grandi imprese».
In sostanza, con il Patto «vogliono far pagare alle popolazioni il prezzo della crisi», salvando una volta di più le banche, con il rischio di «rafforzare le correnti xenofobe, che hanno il vento in poppa» un po’ dappertutto in Europa. Contro questo patto che volta le spalle alla democrazia c’è una petizione su Internet, già  firmata anche dagli italiani Massimo D’Alema, Nichi Vendola e Monica Frassoni, oltre che da Jacques Delors, Daniel Cohn-Bendit, Martine Aubry o Martin Schultz (www.oureurope.org, vedi anche www.changeforeurope.eu). Il Ps francese e l’Spd tedesca hanno firmato una dichiarazione comune, chiedendo una riforma radicale della politica economica, finanziaria e sociale dell’Ue che sia «democraticamente legittima». Tra le proposte: Tobin tax, eurobond, togliere dal calcolo dei deficit gli investimenti per il futuro, dimensione sociale della governance economica.


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