“Wal Mart non discrimina le donne” no alla class action delle dipendenti

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NEW YORK – Le donne non potranno dimostrare di essere discriminate sul lavoro in quanto donne. Potranno certo continuare a farlo singolarmente: ma senza lo scudo dell’azione collettiva che spesso è l’unica arma per opporsi allo strapotere dei datori di lavoro. 

Con una decisione che ha visto dividersi in maschi e femmine perfino i giudici, la Corte Suprema americana ha detto no alla class action per discriminazione sessuale contro Wal Mart. Una sentenza che rischia di mettere un freno anche a tutte le altre cause collettive rese celebri dalle storiche vittorie sul fumo contro Big Tobacco. Perché l’argomentazione principale è devastante nella sua semplicità : le accuse sono troppo vaste e diverse per dare vita a un’azione collettiva.
Tutto per la verità  è «big» in questo caso. Wal Mart è il più grande supermercato d’America, 3.400 negozi, oltre a essere la più grande compagnia privata per numero di impiegati. E la causa è la più grande mai intentata: con più di un milione e mezzo di persone pronte alla denuncia. Proprio questo ha spinto i giudici a rigettare l’ipotesi che le lavoratrici possano raccogliersi in gruppo per avanzare le richieste di indennizzo. Che sarebbero naturalmente state le più alte di sempre: per miliardi di miliardi.
Il caso era nato dalla denuncia nel 2000 di Betty Dukes, un’impiegata di Pittsburg, California, che sosteneva di essere sottopagata perché donna. Subito alla sua voce si era aggiunta quella di decine di migliaia di donne. Ma su questo la Corte è stata per una volta unita. Ha ragione Wal Mart a sostenere che la class action violerebbe le leggi federali: le migliaia di impiegate donne in migliaia di differenti posti, nelle migliaia di negozi d’America, con migliaia di capireparto, rappresentano realtà  troppo diverse per essere accomunate da un’azione collettiva.
Per le donne è uno schiaffo: i gruppi civili avevano puntato sulla class action per rilanciare i diritti. Ma la Corte a maggioranza conservatrice (e maschile) ha respinto la testimonianza di uno dei più autorevoli studiosi di diritto del lavoro. William T. Bielby aveva parlato in aula di «prova scientifica»: i «pregiudizi di sesso, gli stereotipi e le dinamiche dell’ineguaglianza sessuale» si ripercuoterebbero concretamente sui luoghi di lavoro. La «mano libera» lasciata per esempio ai vari capetti sul territorio porterebbe a quelle «decisioni su compensi e promozioni permeabili ai pregiudizi di genere».
E’ qui che i giudici si sono divisi (5 a 4) tra conservatori e liberal: ma anche tra maschi e femmine. Anthony Scalia, che ha steso l’opinione della maggioranza, ha sostenuto che non c’è «nessuna prova significativa» di questa «generale politica di discriminazione». E’ stata Ruth Bader Ginsburg a rispondergli: subito seguita dalle donne nominate da Barack Obama, e cioè Sonia Sotomayor ed Elena Kagan. «E’ noto che la pratica di delegare ai supervisori le decisioni sul personale produce gli effetti più diversi» ha scritto la giudice più anziana: «Anche i manager, come il resto dell’umanità , possono essere preda dei pregiudizi dei quali non sono neppure coscienti».

 


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