Quei bravi ragazzi nel fortino di Villabate traditi da donne e cocaina

by Editore | 5 Giugno 2011 7:22

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Se ne stava chiuso nella sua tana senza dare confidenza a nessuno. Si fidava solo di loro: dei «bravi ragazzi» di Villabate. L’ultimo Bernardo Provenzano, vecchio e malato, sospettosissimo, agitato per la paura che qualcuno lo facesse scivolare in qualche trappolone, aveva affidato se stesso e il destino di Cosa Nostra a sconosciuti boss che vivacchiavano alle porte di Palermo. In un paese – Villabate appunto – dove i mafiosi si vantavano perfino di essere antimafiosi. Dove il presidente del consiglio comunale organizzava «feste della legalità » con il capitano Ultimo (il carabiniere che materialmente afferrò Totò Riina) come ospite, dove non si sparava mai ma si trattavano affari, dove uomini politici importanti – Clemente Mastella e Totò Cuffaro – erano stati testimoni di nozze di insospettabili fiancheggiatori dello zio Bernardo. Villabate gli sembrava proprio il luogo ideale per trascorrere una serena latitanza. Come a casa. Come nella sua Corleone. Non aveva pensato male Bernardo Provenzano quando si accorse che i poliziotti di Renato Cortese gli stavano alle calcagna fra Misilmeri e le campagne della Milicia, l’idea di trovare un riparo in quel piccolo paese fra la grande città  e Bagheria si era rivelato davvero una scelta giusta.

Fu felice anche nella disgrazia, quando nel 2003 gli dissero che doveva farsi operare alla prostata per un tumore. Il presidente del consiglio comunale Francesco Campanella si diede subito da fare per procurargli una carta d’identità  intestata a Gaspare Troia e farlo espatriare, i medici gli avevano consigliato una clinica sicura alla periferia di Marsiglia. Fu uno dei detenuti liberati ieri – Vincenzo Paparopoli – che con i suoi documenti acquistò le schede telefoniche per prendere i contatti con la clinica francese e preparare il «viaggio della speranza» per il padrino. Altri due – Gioacchino Badagliacca e Giampiero Pitarresi – parteciparono al gran galà  organizzato in paese per ricevere lo «zio» sano e salvo al ritorno da Marsiglia. Baci, abbracci e giuramenti di fedeltà  eterna. Il vecchio Bernardo aveva visto lungo su Villabate e sulla sua gente di mafia.
Lungo ma non lunghissimo. A quei «bravi ragazzi» piacevano troppo i divertimenti, non resistevano «ai fimmini», qualcuno di loro tirava di coca, qualcun altro aveva pure il vizio del gioco. Mentre lui era ricoverato nella clinica di Marsiglia i suoi favoreggiatori ne avevano approfittato per fare qualche puntatina a Saint Vincent, casinò e champagne, pupe e roulette. Per fortuna loro lo «zio» l’avrebbe scoperto dopo, tanto tempo dopo. Erano servizievoli i suoi custodi di Villabate, erano fedeli, però facevano una vita, una «bella vita», che per un vecchio boss di Corleone era peggio della morte. Se ne rese conto troppo tardi Bernardo Provenzano. Quando ormai era finito nella tonnara della polizia e non gli restò che rifugiarsi nella sua Corleone. Anche Villabate non era più sicura. Anche Villabate in qualche modo l’aveva tradito.
Tutti i fiancheggiatori di quel paese avevano come capo e modello Nicola Mandalà , un uomo di trentasette anni per il quale il boss dei boss stravedeva. Non lo sapeva che a Nicola la cocaina non piaceva solo venderla ma anche sniffarla. Non lo sapeva che andava a raccontare tutte le faccende segrete di Cosa nostra alla sua compagna Tiziana. Gli aveva descritto per filo e per segno anche il rito dell’iniziazione, quando lo avevano combinato: «Vedi Tiziana… si fa così…».
Il resto della storia dei «bravi ragazzi» di Villabate è riassunta in recentissime indagini che sfiorano anche antiche vicende del paese con in mezzo nomi eccellenti. Il padre di Nicola Mandalà  – Nino – era infatti molti anni fa socio nella Sicilia Brokers con il presidente del Senato Renato Schifani, voluto (sempre da Mandalà ) anche come consulente per il piano regolatore del paese. Al tempo Schifani era un anonimo avvocato civilista di Palermo, tutti lo conoscevano come lo sbrigafaccende dell’onorevole Enrico la Loggia. Nino Mandalà  era invece una potenza a Villabate. Incensurato e (presunto) capo del mandamento mafioso. Era il padrone di Villabate.

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