Quando il popolo è chiamato a decidere

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Il 12 e il 13 giugno il popolo verrà  convocato perché si riferisca (è questo il significato etimologico del termine) alle autorità  il suo volere: sulla costruzione di centrali nucleari nel nostro Paese, sulla privatizzazione dell’acqua, sul legittimo impedimento. Questi referendum potrebbero essere il colpo del ko alla destra berlusconiana: “potrebbero” perché prima ancora della vittoria del Sì o del No (ovviamente decisiva) si deve superare l’ostacolo del quorum dei partecipanti, che deve essere del 50% degli aventi diritto al voto: e la data è stata appositamente scelta dal governo per invogliare gli italiani a disertare le urne. È stato in bilico fino all’ultimo, ma è passato, il quesito sul nucleare, nonostante il tentativo del governo con di cancellare (ma non del tutto né per sempre) la legge che istituiva la possibilità  di riaprire i cantieri nucleari nel nostro Paese.
Una furbizia inutile, ai confini della slealtà , che dimostra la grande differenza che passa tra le logiche plebiscitarie – a cui la destra è affezionata, da Napoleone III a Mussolini, per restare al passato – e quelle referendarie, che invece teme: le prime consistono nel fatto che le decisioni sono già  prese dai vertici, e poi sottoposte al popolo come una domanda a cui si può rispondere coralmente Sì o No, mentre le seconde implicano la libera e informata scelta individuale. Mentre Carl Schmitt sosteneva che il popolo nello Stato moderno può essere presente solo con l’acclamazione plebiscitaria, e che l’alternativa è il ricorso al principio “aristocratico” della rappresentanza, che esclude il popolo dalla politica, è vero invece che l’acclamazione è un’espressione inarticolata della volontà  del popolo, esposto a ogni manipolazione preventiva; che la rappresentanza non esclude del tutto il popolo se essa si manifesta attraverso i partiti; e che, in ogni caso, il referendum è un modo per rendere il popolo, nella sua immediatezza, attivo e non passivo, non massa ma insieme di cittadini. La cui volontà  diretta, sulla base degli articoli 75 e 138 della Costituzione, è una fonte primaria del diritto, capace di abrogare leggi (o loro parti) e di confermare (o rifiutare) modifiche della Costituzione – il quorum è previsto solo per i referendum abrogativi, e non per quelli costituzionali –.
Una voce del popolo, che non sarà  la voce di Dio ma che può avere la meglio sulla voce del sovrano, cioè del parlamento, del potere legislativo: ossia dell’istituzione in cui il popolo è rappresentato, in cui esercita solo indirettamente la propria sovranità . Nel referendum, certo, entra in scena il popolo democraticamente decidente rispetto al popolo delegante; non però per rovesciare o bypassare le istituzioni della rappresentanza – questa è invece la finalità  dei plebisciti – ma per sostituirsi parzialmente a esse in alcuni casi, previsti dalla Costituzione e dalle leggi. Tipicamente, quando i partiti, in Parlamento, non riescono a trovare accordi su materie delicatissime (come fu per il divorzio), oppure quando si accordano fin troppo e formano un blocco che rende impossibile riforme e modifiche delle leggi. Queste, allora, sono proposte da forze, solitamente minoritarie, le quali attraverso il referendum acquistano visibilità  e peso politico – soprattutto se intercettano desideri e bisogni reali della società  –.
Dopo il referendum istituzionale del 1946 su repubblica o monarchia l’Italia ha attivato l’istituto del referendum abrogativo, previsto dalla Costituzione ma non amato né dal Centro né dalla Sinistra, per far digerire ai cattolici la legge Fortuna-Baslini (sul divorzio) e per consentire loro la prova di forza abrogativa, guidata da Fanfani, che fallì. Una stagione referendaria, guidata dai radicali, si aprì allora e raggiunse il culmine fra il 1993 e il 1995: si intervenne sui diritti (l’aborto), sul nucleare, sul finanziamento pubblico dei partiti, sulle preferenze elettorali, portate nel 1993 da tre a una, con una decisione che prefigurava il sistema elettorale maggioritario. Solo in una tornata del 1990 non fu raggiunto il quorum; ma in generale il declino della Prima repubblica e gli albori della Seconda si svolsero all’insegna dei referendum – alcuni vinti e altri persi, mentre il plebiscito è sempre vinto da chi lo propone –.
Ma con il referendum – anche se i suoi risultati sono rispettati dal Palazzo, il che non sempre avviene – non si governa (in Italia, almeno, dove è solo abrogativo, a differenza di quanto avviene in altri contesti – il più noto è la Svizzera – in cui è anche propositivo). L’Italia berlusconiana (e prodiana, per quel po’ che si è vista) non ha amato il referendum: è dal 1997 che i quesiti proposti non raggiungono il quorum, anche su importanti materie bioetiche e biopolitiche. La spiegazione di questa disaffezione è duplice: sia perché il popolo è stato “presente” attraverso l’identificazione carismatico-plebiscitaria col Capo, sia perché l’inflazione di referendum ha svilito lo strumento stesso. Il referendum è un'”eccezione democratica”, regolata e razionale: può sbloccare un sistema politico rappresentativo, non lo può sostituire normalmente. Il popolo è pronto a dire la sua solo quando capisce che il Parlamento non riesce a parlare; ed è questo il motivo per cui la prossima tornata referendaria suscita tanta curiosità : perché è un’occasione per capire se dopo anni di afonia, o di acclamazione, gli italiani si sentono pronti non solo a votare, cioè a delegare – lo hanno appena fatto, e in modo molto preciso –, ma anche a decidere in proprio.

 


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