“Siamo un Paese insabbiato qui si fa poco per la crescita”

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ROMA – L’economia italiana è «insabbiata» ma i suoi ritardi strutturali non sono «segni di un declino ineluttabile». Possono essere affrontati. Occorre però «tornare a crescere»: ecco l’imperativo, «il mio punto fisso». Servono tagli mirati di spesa e meno tasse per famiglie e imprese.
Mario Draghi legge le sue ultime «Considerazioni finali» da governatore della banca d’Italia, prima di trasferirsi a Francoforte, al vertice della Bce. Di fronte al Gotha dell’economia, riunito a Via Nazionale, si chiede: «Quale paese lasceremo ai nostri figli?». E constata che di tutti gli obiettivi e le linee d’azione suggerite in questi cinque anni di reggenza «poco si è tradotto in realtà ». E allora «viene in mente l’inutilità  delle prediche di un mio ben più illustre predecessore». Cioè Luigi Einaudi, governatore per un triennio dal 1945, quando l’Italia si dibatte tra distruzione e disoccupazione. E’ un piemontese colto e perbene, di lì a poco ministro del bilancio e poi presidente della Repubblica. E’ un po’ filosofo, crede nell’etica, ama la chiarezza ed è il primo a scrivere di suo pugno le Considerazioni finali per «parlare al cittadino indotto che non sa nulla ed ha prima e meglio dei dotti il diritto di essere informato».
E Draghi informa, appunto e consiglia, Dice per esempio che bisogna senz’altro riportare il bilancio in pareggio entro il 2014 come si propone il governo, ma va abbattuta la spesa primaria corrente di oltre il 5% in termini reali. Suggerisce di «non procedere a tagli uniformi» della spesa perché così facendo si ottiene l’effetto contrario: una contrazione di 2 punti di Pil in tre anni. Meglio operare sforbiciate «selettive», «voce per voce», come aveva iniziato a fare Padoa Schioppa. E ancora: vanno ridotte le aliquote sui redditi per lavoratori e imprese, compensando il minor gettito «con ulteriori recuperi di evasione»: una materia, questa su cui si sono già  avuti risultati «veramente apprezzabili». E – non ultima – ci vuole una manovra «tempestiva, strutturale e credibile» agli occhi degli investitori internazionali. Il federalismo fiscale può aiutare, ma solo a due condizioni: che i contributi locali siano compensati da tagli di quelli decisi al centro; che ci sia «un serrato controllo» di legalità  sugli enti a cui è affidata la responsabilità  di spesa.
Il nodo di tutto è la crescita che è troppo bassa. Dall’avvio della ripresa, l’economia ha recuperato solo 2 dei 7 punti persi nella crisi. Nell’ultimo decennio il Pil da noi è aumentato meno del 3% in Francia del 12, i salari sono fermi e i consumi languono. La produttività  ristagna, il sistema perde competitività . E per la prima volta Draghi individua (e calcola) le 8 ragioni che frenano la crescita. L’inefficienza della giustizia civile, per cominciare, che colloca il paese al 157esimo posto su 183 nelle graduatorie internazionali: la perdita annua di Pil attribuibile a questa disfunzione è di un punto. Un altro 1% se lo mangia l’assenza di poli d’eccellenza nell’istruzione. Pesano poi: scarsa concorrenza, carenza di infrastrutture, inefficienza nell’esecuzione dei progetti finanziati dalla Ue, assenza di regole certe nella rappresentanza sindacale. Sul lavoro, la diffusione di contratti a tempo determinato crea un dualismo tra chi è più tutelato e chi non lo è: serve più flessibilità , non solo nelle modalità  d’ingresso. E’ fattore di debolezza la scarsa presenza delle donne nel mondo del lavoro: solo il 46%, 20 punti in meno dei maschi, inferiore al resto del mondo. Infine le imprese, più piccole del 40% rispetto alla Ue, troppo familiari nella proprietà  e nella gestione. Draghi cita Cavour: “Il risorgimento politico di una nazione non va disgiunto dal suo risorgimento economico…» E per la scelta del successore raccomanda due requisiti: «Merito e indipendenza».

 


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