“Noi, chiusi in casa per paura dei Taliban” A Herat, la città  nella morsa del terrore

by Editore | 5 Giugno 2011 7:08

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HERAT – Serpeggia una vena di angoscia negli sguardi dei rari occidentali che incroci lungo i muri della grande moschea o tra i vicoletti dell’antico bazar. Ma in giro non vedi italiani: i nostri connazionali sono stati tutti trasferiti nella base militare di Campo Arena o costretti a rintanarsi nelle sedi delle organizzazioni non governative per cui lavorano. L’attacco di lunedì scorso contro l’edificio del Gruppo di ricostruzione provinciale di Herat, che ha provocato il ferimento di cinque soldati della brigata “Ariete”, la morte di cinque soldati afgani e di altrettanti Taliban, è stato un fulmine a ciel sereno nel capoluogo di una delle province più sicure dell’Afghanistan. «Peggio, è stato un terremoto che ha colpito un simbolo, quello di una città  dove il cancro degli insorti sembrava estirpato», spiega il maggiore Marco Amoriello, portavoce del nostro contingente, che nell’ovest del Paese conta quattromila militari.

L’attentato di Herat è stato un sisma seguito da numerose scosse di assestamento: una bomba contro l’ospedale, la distruzione di due ponti, l’arresto di tre giovani carichi di tritolo e la caccia, ancora infruttuosa, a una decina di “suicide bombers”, kamikaze pronti a farsi esplodere e che qui tutti dicono provenire da altre province. «Noi intanto viviamo rinchiusi nelle nostre villette, in attesa che dall’Unità  di crisi della Farnesina arrivi il via libera per rimettere il naso fuori e ricominciare a lavorare», spiega Roberto Coslovi, pediatra dell’Aispo, l’organizzazione umanitaria dell’Ospedale San Raffaele di Milano. «La nostra sola arma di difesa è mantenere un profilo basso, per restare un obiettivo insensibile», gli fa eco Milo Todeschini, geologo di un’altra ong italiana presente a Herat, il Cesvi di Bergamo, che sta lanciando un progetto per arginare i danni delle ricorrenti piene del fiume Arirut.
Il mese prossimo, intanto, a Herat avverrà  la cosiddetta “transizione”, che è il passaggio delle consegne alle forze di sicurezza afgane: passaggio graduale, s’intende, ma che dovrà  preparare il ritiro del nostro contingente annunciato per il 2014 dal ministro della Difesa, Ignazio La Russa. Quando chiediamo al maggiore Amoriello se l’attentato contro il Gruppo di ricostruzione provinciale sotto comando italiano e se il conseguente ordine di coprifuoco imposto ai nostri esperti di cooperazioni non rischia di rimettere in discussione l’impegno di restituire l’Afghanistan agli afgani, il portavoce risponde che si è trattato di un evento imprevedibile e che rientra comunque in quella che si può definire l'”offensiva di primavera”. «Bisogna adesso capire perché hanno voluto colpire gli italiani a Herat, e quali equilibri si sono infranti in questi mesi per spingere gli insorti a compiere un attentato così complesso e così spettacolare», dice ancora il maggiore.
Come molti, anche lui non usa più il termine Taliban per definire i nemici della pace afgana, bensì “insorti”: che possono essere, sì, studenti del Corano, ma anche ex signori della guerra, trafficanti di oppio, briganti o criminali comuni che hanno interesse a destabilizzare il Paese per incrementare i loro loschi proventi. Alcuni di questi, sostengono i più ottimisti, sono pronti a consegnare le armi in cambio di valide prospettive economiche. Pochi giorni fa, nel distretto di Badghis, in 116 avrebbero barattato i loro fucili per un programma di reinserimento professionale promosso dal governo di Kabul.
Fatto sta che l’ultima “offensiva di primavera” si sta rivelando particolarmente cruenta per le forze della Nato. Ad aprile e maggio di quest’anno il computo dei morti ha raggiunto le 110 unità , rendendoli i mesi più funesti per le truppe internazionali dall’inizio della guerra in Afghanistan. Infatti, secondo il sito “iCasualties. org”, nello stesso periodo del 2010 avevano perso la vita 85 militari dell’Alleanza. Basta poi sfogliare i quotidiani locali per farsi un’idea di ciò che sta accadendo in Afghanistan: non c’è giorno che non vi siano pagine infarcite di notizie su attentati, sabotaggi, sequestri, ammazzamenti e altre nefandezze più o meno sanguinarie, compiute dagli “insorti”. «Per questo mi chiedo se siamo davvero in una fase di transizione o di post-conflitto, come vogliono farci credere, o se non siamo piuttosto in piena guerra», dice Alberto Bortolan, medico anche lui, e direttore l’ufficio della nostra Cooperazione allo sviluppo di Kabul.
Alle nove del mattino il sole è già  così forte che sembra sentirlo crepitare sui muri di cinta delle villette in stile moresco della Ansari road. A duecento metri dall’edificio del Gruppo di ricostruzione provinciale, sventrato da un camion carico di esplosivo, sorge adesso una montagna di vetri, quelli delle finestre che in un raggio di centinaia di metri sono state infrante dalla deflagrazione. Un Lince con un soldato italiano alla mitraglia ci impedisce di proseguire. Torniamo sui nostri passi e incontriamo un soldato afgano che ci mostra sul suo cellulare la scena dell’attacco, girata una volta finita la battaglia che gli insorti hanno scatenato con kalashnikov e lanciarazzi dopo l’esplosione. Un teatro di guerra. Dice il soldato: «Ma quale offensiva di primavera! A Herat e in tutto il Paese la situazione sta peggiorando perché il presidente Karzai è sempre più debole e sempre più ladro. Altrimenti perché perfino gli americani gli chiedono adesso di trattare con i Taliban?» Già , perché?

 

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