“Il palcoscenico è tutto il resto non conta”

by Editore | 19 Giugno 2011 5:17

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Le autocelebrazioni gli si addicono poco. «È tutto lì, in palcoscenico», ripete con pazienza da guru Luca Ronconi, mentre mostra, un po’ reticente e per la prima volta in pubblico, alcuni fogli di carta disegnati, strani schizzi, ghirigori. «Cose che hanno valore solo per me, come fossero delle rune – dice guardandoli – Sono schizzi di come immagino possa essere una scena. Per il resto lo spettacolo lo tengo a mente tutto. Mi faccio in testa le possibilità  di un lessico scenico che poi in parte è mantenuto, in parte è a perdere… Quaderni di lavoro? Diari? Ma no, non ho niente da scrivere. Se scrivessi, crederei troppo a quello che faccio. E se ci credessi perderei la curiosità  di andare avanti. Anche per i grandi spettacoli ho fatto così. Ne Gli ultimi giorni dell’umanità , per esempio, lo spettacolo da Karl Kraus che feci al Lingotto nel ’91: nell’opera tutto si conosceva attraverso i giornali, la stampa. Da lì mi venne l’idea di mettere in scena le grandi linotype, non da chissà  quali elucubrazioni. Il buon risultato è se cose così ovvie restano ovvie o comunicano altro».
Nessuno come Ronconi, il più carismatico regista del teatro italiano, una delle poche eccellenze italiane conosciute in tutto il mondo, dimostra quanto «la creazione artistica» sia una cosa terrena, un puzzle di innesti, più che di profonde meditazioni, dove trovano posto attori, scenografi, costumisti, persone che lavorano, provano, e poi fatica, sale da lavoro, dedizione, routine. «Quando provo uno spettacolo sono otto, dieci ore al giorno di lavoro. Poi la sera a casa c’è in testa una specie di moviola, rivedi quello che hai fatto e cerchi di capire gli errori, perché un attore trova una difficoltà , come fare a rimuoverli».
Il punto di partenza, spiega, è sempre il testo. «Non solo testi teatrali, però. Quante volte ho messo in scena romanzi in quanto romanzi, senza farne trasposizioni; o saggi scientifici, epistolari. A volte può diventare teatro anche solo uno spazio come mi capitò con XX, che feci all’Odéon di Parigi nel ’71: era un’azione in venti stanze che diventava spettacolo. A me succede questo: che non solo quando leggo un testo teatrale ma qualunque cosa mi capiti a tiro, la colloco immediatamente in una possibile scena. L’idea di trasferire in un tempo-spazio quello che sta sulla pagina scritta l’ho sempre avuta, anche quando avevo vent’anni. Ogni cosa, non solo il testo teatrale, ogni pagina letteraria può avere nello spazio la sua forma ideale».
Quali letture, fantasie, autori diventino i suoi spettacoli autorevoli, difficili, mai banali non è facile dirlo. «Prendiamo le ultime regie, per esempio: la commedia di Bond che ho fatto al Piccolo Teatro, La compagnia degli uomini e Nora alla prova che ho fatto con lo Stabile di Genova. Nel caso di Ibsen è chiaro che possono essere cose che mi lavorano nella memoria, testi che conosco da tempo e che negli anni cambiano fisionomia. Quello di Bond, invece, è un testo che conosco da quindici anni e mi è sonnecchiato in testa prima di venire fuori. Oppure uno spettacolo può nascere da spunti diversi: una volta può essere l’incontro con un attore o un’attrice, un’altra volta un avvenimento storico. Anche una scommessa che faccio con me stesso. A pochissime, tra le tante cose che ho fatto, posso dare il nome di progetto, intendendo qualcosa di prefigurato, meditato. Il mio modo di lavorare è sempre stato una sfida: fino a che punto un testo può essere trasferito in scena?».
Racconta di quando nel ’69, per il leggendario Orlando Furioso, aveva tra le mani i fogli sparsi della traduzione di Edoardo Sanguineti pensando alla possibile rappresentazione. «Mi ero fatto la riflessione lapalissiana che le cose andavano rappresentate una dopo l’altra perché nel libro sono ovviamente cosi. Invece quella volta, nello studio, per sistemarli misi i fogli sul pavimento in ordine sinottico. Capii che era la successione giusta. Quella mappa sul pavimento divenne lo spettacolo».
In questo momento sta lavorando a un nuovo allestimento. Sul palco del Piccolo Teatro di Milano di cui è il consulente artistico, sta seduto al tavolo, una bottiglietta d’acqua, un pacchetto di caramelle e il testo aperto su La modestia di Rafael Spregelburd, «un autore che mi fece conoscere Franco Quadri due anni fa. Mi piacciono gli autori che per linguaggio e strutture drammaturgiche portano qualcosa, non dico di nuovo perché alla novità  non ci credo, ma qualcosa che spinge il teatro oltre le sue convenzioni, come Beckett, Genet: autori e non confezionatori». La modestia debutterà  il 24 giugno al festival di Spoleto e poi al Mittelfest, con un quartetto di attori coi fiocchi: Maria Paiato, Paolo Pierobon, Fausto Russo Alesi, Francesca Ciocchetti, praticamente tutti o quasi sue “scoperte”. «Non scelgo gli attori per aderenza fisica al personaggio, visto che ho fatto recitare a Mariangela Melato una donna che ha trecento anni in L’affare Makropoulos di Karel Capek e una bambina di nove in Quel che faceva Maisie di Henry James. Il lavoro con gli attori è ovviamente centrale. Inizialmente fanno quello che credono e io stesso sono curioso di vedere cosa viene fuori. Il lavoro importante, talvolta anche lungo, è quello cosiddetto a tavolino sul testo: una ricognizione, una prefigurazione di quello che sarà . Leggere insieme il testo è un modo per assorbirlo. Ma quanto alle interpretazioni, aveva ragione Von Hoffmansthal quando diceva che la profondità  va cercata nella superficie. Io parto dal presupposto che sotto i testi non c’è niente. Basta leggerli facendo le connessioni giuste, ampliando lo sguardo».
Ci sono attori che farebbero il diavolo a quattro per partecipare a questo “studio” ed è anche per loro che Ronconi si è inventato Santa Cristina. È il suo centro teatrale in Umbria, un luogo da sogno. In un riparato casale immerso nel verde, tra biblioteche e sale prove, gli attori lavorano, studiano e vivono assieme, dormono in stanzette da due, mangiano nella sala soggiorno, provano. Una cosa a metà  tra scuola d’eccellenza e follia perché sta in piedi con i soldi del regista e poco altro. «Ho voluto creare Santa Cristina per dare ad attori giovani professionisti uno spazio aperto dove fare esperienze non necessariamente finalizzate a rappresentazioni. È importante che i giovani sappiano che lo spettacolo “cotto e mangiato” è negativo soprattutto per loro. Studiano una cosa, la dicono male ed è già  fatta. No. Recitare è un lavoro di scavo, di studio, ricerca. Mi fanno tenerezza – e lo vedo anche tra gli allievi della scuola del Piccolo – i giovani che vorrebbero fare Macbeth pensando: “Finora l’hanno fatto così, io lo faccio in un altro modo”. Mi sforzo di far capire loro che andare controcorrente vuol dire rompere un codice estetico, non fare quello che ci pare».
Come questi pensieri raggiungano il pubblico è un’altra storia. «Il rapporto col pubblico è un incontro. Non lo incateno a credere in quello che faccio io. Mi piace che gli spettatori vedano in quello che faccio ciò che possono vedere. Che poi è il mio modo di stare al mondo: essere liberi. La libertà  di chi fa teatro e la libertà  di chi viene a vederlo, è la grande verità  che sostiene il teatro. Da sempre».

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