by Editore | 18 Giugno 2011 8:05
new york – Il fantasma dei Pigs aleggiava da tempo a Wall Street e a Washington, nelle stanze di comando del capitalismo globale e alla Casa Bianca. La decisione di Moody’s, che fa seguito all’annuncio di segno analogo lanciato da Standard & Poor’s meno di un mese fa, è la chiave per spiegare un apparente mistero. Da molte settimane il Dow Jones è in calo, la regressione della Borsa Usa ha una lunghezza senza precedenti dal 2002, gli umori sono tornati al negativo, la preoccupazione dilaga: e tra le ragioni veniva ripetutamente chiamata in causa la crisi dei debiti sovraninell’eurozona. Ma come poteva la minuscola Grecia da sola fare tanto danno, con un Pil inferiore a quello della città di Los Angeles? Ora l’arcano è svelato. I mercati in questo caso vedevano più lontano: spingevano lo sguardo alla seconda, terza e quarta puntata della crisi. Un effetto-domino che avrebbe prima o poi coinvolto economie ben più grosse – ma egualmente malate – come la Spagna e soprattutto l’Italia. Il nostro paese ha un Pil quasi eguale a quello della California: siamo a una soglia di dimensioni dove la sola ipotesi di difficoltà nel finanziamento del debito diventa una crisi di natura mondiale. Lo sanno le banche di Wall Street e lo sa bene Barack Obama, che con insistenza aveva voluto parlare di crisi dell’eurozona anche al G8 di Deauville, sotto presidenza francese, in un periodo in cui i mercati sembravano più tranquilli. Ma era una finta tregua. Così come è stato effimero il senso di sollievo creato dall’annuncio che Angela Merkel ieri ammorbidiva l’intransigenza tedesca sugli aiuti ad Atene: è durato poche ore il beneficio sui mercati, fino al grande botto di Moody’s sull’Italia. Gli americani hanno sempre visto un’insolvenza greca come il primo tassello che cade, l’inizio di un effetto-domino. Dietro la Grecia l’intero arco dell’Europa mediterranea, più Irlanda e Portogallo, era sui loro schermi radar come l’area esposta al contagio. Ecco perché già un anno fa (maggio 2010) i conati di una crisi greca furono sufficienti a “congelare” di fatto la ripresa americana, gettando un vento di paura sui mercati che è stato pagato con diversi punti di Pil perfino negli Stati Uniti: di qui l’acuta attenzione di Obama a quest’area di fragilità , ventre molle dell’Unione europea. E non interessa all’Amministrazione Obama polemizzare sul ruolo delle agenzie di rating. Certo, tutti ricordano quanto furono inaffidabili nel 2007, e incapaci di prevenire la crisi dei mutui subprime. Ma ciò non toglie nulla alla loro rilevanza nel dettare opinione sui mercati globali. Va ricordato che proprio qui negli Stati Uniti fu inaugurata molti decenni fa la regola per cui i grandi investitori istituzionali (fondi pensioni, assicurazioni) possono detenere nei loro portafogli solo titoli con un certo rating. Quel criterio divenne poi una regola quasi universale, adottato in Europa anche da un’istituzione centrale come la Bce, e nelle azioni emergenti da alcuni fondi sovrani. Dunque un declassamento del rating può avere conseguenze enormi, tagliando fuori una nazione dalle fonti di finanziamento internazionali. L’analisi che sta dietro la decisione di Moody’s del resto è condivisa da una grande istituzione sovranazionale di cui sono azionisti gli stessi Stati: il Fondo monetario. Proprio nel suo rapporto pubblicato ieri, il Fmi lancia l’allarme sul rischio che una crisi dell’eurozona possa compromettere la ripresa mondiale. E il Fmi evoca più volte lo stesso problema – “sviluppo” – che sta dietro i ragionamenti di Moody’s. Ovvero: i Pigs e tra loro un paese come l’Italia, sono stremati da politiche economiche che non creano sviluppo, anzi lo soffocano. Di conseguenza, il rigore nella finanza pubblica diventa socialmente insostenibile. Mettere a posto i conti quando non c’è sviluppo, quando non c’è benessere da redistribuire, quando non c’è lavoro per i giovani, è la ricetta più sicura per un accumulo di tensioni sociali e di proteste, che a loro volta penalizzano la competitività . Nessun “complotto delle agenzie”, quindi, ma un’analisi condivisa dal Fmi: la trappola infernale dell’Europa mediterranea è un’austerità fine a se stessa, senza le riforme strutturali, che quindi si avvita senza produrre conti pubblici sani. Il peso del debito rischia perfino di aumentare, per un perverso circuito vizioso, se il Pil diminuisce: proprio quel reddito nazionale infatti serve a “misurare” la sostenibilità del debito stesso. E nessuna di queste crisi è davvero locale. Per gli americani vale a proposito della Grecia, o domani dell’Italia, il teorema della Lehman Borthers: ne lasci fallire una sola, e tutto il resto del sistema bancario ha rischiato di essere travolto dal crac.
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