by Editore | 19 Giugno 2011 5:42
Il suo arrivo alla guida della Diocesi di Milano coincise con un momento storico drammatico: il mondo occidentale era ancora sotto choc per gli attentati terroristici di matrice islamista negli Stati Uniti. Avvertì quel clima, giungendo a Milano?
«Quando arrivai alla Diocesi di Milano trovai serenità , almeno in prevalenza, anche di fronte ad una fase certamente critica che il mondo stava attraversando. Intendo la serenità della fede e della speranza cristiane. Era probabilmente più al di fuori della Chiesa, in ambienti politici o in realtà ecclesiali ad essi collaterali e pertanto politicizzate, che si auspicavano passi indietro rispetto a una stagione di dialogo. L’esigenza, che lei richiama, di un più forte appello identitario per la difesa della cristianità è di tipo sociologico. Obbedisce a istanze più politiche. Non entro nel merito di una loro valutazione, che appartiene alla sfera dell’opinabile nell’ambito della vita civile. Posso solo dire che il Vangelo esprime altre esigenze».
Trascorsi dieci anni dagli attentati del settembre 2001, possiamo sottoporre a verifica il dibattito culturale e religioso di allora? È ancora sostenibile la tesi secondo cui nell’Islam prevalgono le tendenze integraliste, se non addirittura jihadiste?
«Mi è sempre apparsa culturalmente asfittica e storicamente discutibile la prospettiva di chi intendeva fare del 2001 una data che avrebbe cambiato il corso della storia. Quando si criminalizza tutto l’islam, invece di valorizzarne correnti e movimenti che rifiutano ogni forma di fondamentalismo, si ottiene solo l’effetto di inimicarsi persino coloro che, in quel mondo, potrebbero essere alleati nella lotta all’integralismo. E persino amici in una comune ricerca della giustizia e della pace tra i popoli e le loro tradizioni religiose. Non rendersene conto è proprio la sconfitta della ragione. Non solo. È il prodotto di un integralismo uguale e contrario».
Per avere difeso il diritto di preghiera dei musulmani in pubblici e dignitosi luoghi di culto, lei è stato addirittura tacciato di essere un “imam”. Si aspettava una simile accusa di tradimento della sua missione?
«Chiunque abbia un minimo di buon senso non può che aver preso con umorismo affermazioni così ridicole. Per quanto mi riguarda, ero sorpreso e indifferente nello stesso tempo. È infatti della massima evidenza che quelle boutade erano prive di fondamento. A ciò che è del tutto inconsistente non si dà alcun peso. Tuttavia è giusto chiedersi come è possibile che qualcuno arrivi a livelli così infimi. È questo che sorprende. L’ignoranza e gli equivoci che vi soggiacciono sono davvero preoccupanti. Nella storia non sono mancate e non mancano regressioni e derive della moralità pubblica e della vita sociale. E il pastore deve vigilare sulle possibili derive all’interno della comunità ecclesiale. Come? Certamente pregando e ammonendo. E anche perseverando, sulla propria strada, nel perseguire la giustizia indicata dal Vangelo».
Più volte, e sempre più esplicitamente, lei non ha esitato a intervenire sui temi del lavoro, della discriminazione sociale, della giustizia. Nel mondo politico e nella classe dirigente milanese ha avvertito un impoverirsi dell’impegno etico e delle motivazioni religiose?
«Penso che siamo in presenza di molti fenomeni regressivi in Italia, in Europa e nel mondo. In Italia la crisi, in questi ultimi due decenni, si è resa progressivamente sempre più acuta. Con scadimenti della tensione etica e della qualità culturale e sociale della vita civile. Con cadute del senso delle istituzioni, della coscienza democratica, del servizio alla centralità della persona. Con perdite del senso della misura nella comunicazione sociale. Non posso pensare che Milano sia un’isola così felice, da restare avulsa dal resto del paese. Inevitabilmente risente della crisi sia nazionale, sia più generale. Tuttavia sono sempre stato convinto che Milano abbia conservato valori positivi e abbia grandi potenzialità non solo per ripartire, ma anche per far nascere un processo di rigenerazione del senso della cittadinanza e dei valori della socialità ».
La Chiesa Ambrosiana in questi anni è cambiata a seguito dell’apporto delle nuove comunità immigrate? Nell’esperienza pastorale si registrano tensioni o difficoltà di rapporti con i nuovi fedeli?
«Per me è una grande festa, nelle liturgie, ritrovarmi intorno, come fedeli, i nuovi italiani. Sì, la Chiesa ambrosiana si è molto arricchita grazie a queste nuove presenze. L’immigrazione comporta anche presenze di fedeli appartenenti a confessioni cristiane diverse da quella cattolica. Spesso molti di loro si rivolgono ai nostri parroci e alle nostre strutture sul territorio. Laddove è possibile che questi fedeli si rapportino con ministri e comunità organizzate della loro stessa confessione, vanno orientati a coltivare la propria fede nella Chiesa a cui appartengono. In caso di seria difficoltà o di possibili impedimenti, le nostre comunità parrocchiali accoglieranno a porte aperte coloro che bussano. Ma, nello stesso tempo, dovranno farlo con grande attenzione al fatto che non smarriscano il senso della loro tradizione spirituale».
Quali sono i dilemmi, i problemi nuovi cui sarà chiamato il suo successore nel dialogo interreligioso, nell’ambito della Diocesi?
«Nella Chiesa la problematica del dialogo interreligioso è ancora percepita come questione di frontiera, anche se non può sfuggire che si tratta di questione emergente e ineludibile. Nel prossimo futuro ambrosiano, pertanto, il rilevamento dei problemi in parte dipenderà anche dalla sensibilità del nuovo pastore. Certamente la prima e fondamentale questione è sempre quella formativa. Le comunità cristiane devono essere preparate ad affrontare l’impatto con il fenomeno del pluralismo religioso».
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