“Allah è grande,Henry Ford pure”

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 Omicidio al Pera Palace
Sotto la mia finestra, una strada polverosa e piena di solchi con qualche solitario tratto pavimentato qua e là  sul quale i carri sobbalzano e tintinnano continuamente, salendo a scatti verso Pera, scendendo assordanti verso il ponte vecchio, tutto il giorno dall’alba all’imbrunire; più in là , case alte, ancora più serrate che a New York, un tetto a terrazza sul quale una ragazza a gambe nude stende il bucato, e oltre le tegole rosse, i cipressi polverosi di un cimitero, pennoni, e il Corno d’Oro, color acciaio, con vaporetti all’ancora; e, più lontano ancora, stagliata contro un cielo nuvoloso, Stamboul, cupole, case marrone brunito, minareti luccicanti un po’ dappertutto come omini d’avorio su un tavolo da cribbage. Più su, dove la strada gira intorno al cimitero dei Petits Champs – altri cipressi polverosi, colonne di pietra sormontate da turbanti scolpiti che pendono sia da un lato che dall’altro – dei carri scaricano rifiuti lungo il pendio, ceneri, stracci, carte, oggetti che brillano al sole; non appena hanno finito di scaricare, donne con sacchi sulla schiena, sgomitando e spintonandosi, rovistano nella spazzatura con le loro mani scarne. Da lì si odono i vaghi schiamazzi delle loro voci querule in mezzo alle grida dei verdurai e il rumore brulicante e confuso di molte esistenze stipate in strade strette. […].
Di sotto, nell’atrio di felpa rossa del Pera Palace, andirivieni e confusione. Stanno portando fuori un uomo in redingote e con un copricapo di astrakan nero in testa. C’è del sangue sulla poltrona di felpa rossa; c’è del sangue sul pavimento a mosaico. Il direttore va avanti e indietro con il sudore sulla fronte; il pavimento possono anche lavarlo, ma la poltrona è rovinata. Gendarmi francesi, greci e italiani si pavoneggiano e parlano tutti insieme ognuno nella sua lingua. La testa del poveretto, signore, dice il poliziotto militare britannico al colonnello che non sa se finire il suo cocktail o no. Azerbaigian. Azerbaigian. Era il diplomatico dell’Azerbaigian. Un armeno, un uomo barbuto, si è fermato sulla porta e gli ha sparato. Un uomo con gli occhiali e il mento sbarbato, una spia bolscevica, gli si è avvicinato e ha sparato. Il cameriere del bar che porta le ordinazioni è disperato. I clienti se ne sono andati tutti senza pagare.

Felicità  del derviscio
[…]. In Persia la mendicità  è una forma di santità . Il mendicante è uno strumento che permette al credente di accumulare tesori in cielo. Al khan di Mianej c’era un mercante la cui carovana era stata saccheggiata dai banditi. Possedeva un certificato rilasciato da un mujtahid con la dichiarazione che Allah l’aveva privato dei beni terreni e, seduto nella sala superiore, attendeva pazientemente i doni dei viaggiatori per poter finalmente riprendere gli affari. Aveva il volto di un uomo molto felice, di un uomo che ha smesso di lottare contro le avversità . Non per niente Islam vuol dire sottomissione e abnegazione.
E in tutte le sale da tè lungo la strada si trovano dei tipi allegri, coperti di stracci e con i piedi doloranti, uomini di ogni età  e condizione che hanno rinunciato al lavoro e che vagano per le strade principali, sfruttando come meglio possono la santità  della povertà . Sono certamente le persone più felici di tutta la Persia. Non devono temere gli esattori delle tasse o gli assalti delle tribù di montagna o i banditi nei valichi. Queste persone vagano mentre muoiono di fame e intonano inni, arsi dal sole e dal vento, portando le epidemie e la parola di Dio dal deserto del Gobi all’Eufrate. I vagabondi esistono dappertutto, ma in quello che possiamo vagamente chiamare l’Est, l’accattonaggio è un atto religioso. Tutta la follia, tutta l’irrequietezza viene da Dio. Se un uomo perde il suo unico figlio o la sposa amata, o se è vittima di altre irrimediabili calamità , egli si spoglia dei suoi abiti, abbandona la casa, si fa crescere i capelli e comincia a vagare per il mondo mendicando e lodando Dio. Un uomo diviene un derviscio così come nel medioevo in Europa sarebbe entrato in monastero.
Erano tutte cose sulle quali riflettevo profondamente quando facevo la spola con la stazione del telegrafo a Teheran durante le settimane in cui nella mia borsa i kran d’argento si erano ridotti a una manciata e il conto dell’albergo continuava a salire e ogni cablogramma che inviavo per chiedere denaro mi costava una settimana di vitto e alloggio. Erano i primi giorni di moharram, il mese del lutto, quando non c’è né musica né balli, il mese della passione di Husain, il figlio di Fatima, figlia del Profeta. Teheran si riempiva di mendicanti e religione e odio per gli stranieri ogni giorno di più. […].
Con il nome di Allah come unico bagaglio si poteva viaggiare dalla Grande Muraglia cinese al Niger, senza troppe preoccupazioni riguardo al cibo e al denaro, a patto di accettare di toccare la polvere con la fronte cinque volte al giorno e di rinunciare a se stessi e al lustro dell’Occidente.
Ciò nonostante, l’Occidente continua a conquistare. Il vangelo della produzione in serie e delle parti intercambiabili di Henry Ford conquisterà  i cuori rimasti fermi a Talete e Democrito, contro Galileo e Faraday. Non esiste dio tanto forte da resistere alla Periferia Universale. 
La nostra è un’epoca in cui il derviscio, simbolo di mistero errante sulla faccia del mondo, diventerà  un semplice vagabondo così come lo è nei paesi civilizzati.

Dichiarazione di indipendenza
Come nella Roma antica, l’alba a Bagdad è l’ora delle visite. Sbadigliando, ho seguito la mia guida per molti vicoli che trattenevano ancora il fresco della notte, sotto archi stretti e fatiscenti, lungo passaggi tra muri di fango screpolati, fino a giungere a una ripida rampa di scale ricavata in un muro spesso. Arrivati in cima, mi sono fermato ad aspettare in una stanzetta buia mentre la guida si infilava in una porta turca intarsiata. Dopo un istante è tornato e mi ha condotto in una stanza piena di tappeti. […]. 
Finalmente un ragazzo con un fazzoletto rosso in testa ci ha accompagnati in una sala lunga e spoglia con il pavimento coperto di tappeti e con dei lunghi cuscini alle pareti. Dopo le attese e i mamnoon, i convenevoli di rigore, ci siamo accomodati contro il muro in fondo alla sala accanto a un anziano signore in abito grigio tortora e con una bella barba oro e argento; abbiamo bevuto del caffè e infine ha cominciato a rivolgersi a me tramite la guida. Parlava con una voce bassa e calda, tenendo gli occhi a terra, e ogni tanto allungava le lunghe dita brune verso la barba ma senza toccarla. Quando si interrompeva per consentire alla guida di tradurre, ci guardava con occhi penetranti e mi sono accorto che erano blu.
In America, gli era giunta notizia, avevamo avuto un grande Sceicco Washiton autore di un libro sulla dichiarazione dell’indipendenza del paese dagli Inglizi molti anni fa. Da quel giorno abbiamo seguito i precetti del Profeta, credendo in un solo Dio e proibendo il consumo di vino. Tutto questo era molto bello. E ora, nel grande gioco di potere europeo avevamo inviato un altro grande Sceicco, Miister Viilson, che in Quattordici Punti aveva dichiarato che tutte le nazioni erano libere, eguali e indipendenti. Anche questo era bene. Se il volere di Dio fosse stato diverso, egli avrebbe creato una sola nazione e non molte.
La nazione araba, formata da fedeli di Bagdad e Damasco, aveva aiutato volentieri gli inglizi e i franzeui a cacciare gli Osmanli che erano oppressori e adesso erano ansiosi di mantenere la pace e l’amicizia con il mondo intero, seguendo le parole di Miister Viilson. Ma gli Alleati non avevano agito secondo le parole di Miister Viilson, né secondo i principi dello Sceicco Jurij Washiton. E questo non era bene. I patrioti arabi erano stati cacciati e imprigionati dai franzeui a Damasco, e adesso gli inglizi, rompendo la promessa, cercavano di ridurre in schiavitù il popolo iracheno. Gli inglizi credevano di poter trattare gli arabi di Bagdad e di Bassora e di Damasco come avevano trattato le genti dell’India. Avrebbero scoperto che gli arabi non erano tanto teneri. Avevano provato a imbrogliarli con delle parvenze di regni, quando anche l’ultimo dei facchini sapeva bene che né Faisal né Abdullah, e nemmeno il re dello Hijaz con il suo dominio sulle città  sante, avevano nessun potere senza le armi degli Inglizi.
Bisogna che l’America dica ai suoi compatrioti che il popolo dell’Iraq continuerà  a battersi per la libertà  e per i principi proclamati dallo Sceicco Washiton e da Miister Viilson. L’ultima rivolta era fallita perché mal preparata. La prossima volta… ha detto alzando impercettibilmente la voce. […].

Traduzione di Maurizio Bartocci


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