Primavere arabe e petrolio Il mix che fa tremare i Grandi

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Arabia Saudita Riad vuole far pagare a Washington il sostegno alla cacciata di Mubarak e i dubbi sul Bahrein Iran L’obiettivo di Teheran è tenere alto il valore dell’oro nero. Le fratture interne però minano la linea dura di Ahmadinejad
Domani a Vienna il vertice dell’Opec. Dall’inizio delle rivolte la produzione di petrolio è scesa di 1,4 milioni di barili al giorno
Washington teme la vendetta saudita, la Libia è presente con due delegati che sostengono tesi opposte, l’Iran guida la seduta puntando a mettere in difficoltà  l’Occidente e sullo sfondo i più timorosi di una spaccatura sono i cinesi: il summit ministeriale dell’Opec che si apre domani a Vienna riassume e rispecchia le tensioni politiche internazionali innescate dalle rivolte arabe ruotando attorno all’interrogativo se far scendere o no il prezzo di 100 dollari a barile che minaccia la ripresa globale.
«Il tema in cima all’agenda è l’impatto del prezzo del petrolio su una crescita ancora debole – spiega Amy Myers Jaffe, analista di punta sui temi energetici del Baker Institute della Rice University di Houston in Texas – e dunque conterà  la decisione presa dagli unici Paesi produttori che possono aumentare le estrazioni, anzitutto Arabia Saudita e subito dopo Kuwait ed Emirati Arabi Uniti». Se il prezzo del barile oscilla attorno ai 100 dollari e il 29 aprile è salito fino a 113,93 – il livello più alto degli ultimi due anni – è a causa delle rivolte arabe che hanno bloccato la produzione di 1,4 milioni di barili al giorno, secondo una valutazione del «Petroleum Policy Intelligence» britannico. Da qui l’auspicio dell’Agenzia internazionale per l’energia di «un urgente intervento per immettere più greggio sui mercati per far abbassare i prezzi che minacciano le maggiori economie» con un aumento di produzione che, per l’Eurasia Group di New York, dovrebbe portare l’Opec ad arrivare a 29,9 milioni di barili al giorno con l’aumento di 1 milione di barili rispetto a quanto avvenuto in maggio.
Tutti gli occhi sono puntati sui sauditi, che appartengono al G20, perché fino a gennaio sostenevano la necessità  di tenere il prezzo attorno ai 50-60 dollari, ma da quel momento in poi hanno taciuto, facendo coincidere il silenzio su questo tema con le ripetute critiche pubbliche a Washington sulla gestione delle rivolte arabe. Riad era infatti contraria alla rimozione di Hosni Mubarak dall’Egitto e ha poi sostenuto con l’invio di carri armati la repressione della rivolta in Bahrein, sfidando palesemente le richieste Usa di non intervento. «Il disaccordo sta nel fatto riassume Amy Myers Jaffe – che per l’amministrazione Obama le rivolte arabe riducono l’influenza iraniana in Medio Oriente mentre per i sauditi rischiano di aumentarla». Senza contare il fatto che la monarchia wahhabita si sente direttamente minacciata dalle istanze democratiche che spazzano i Paesi confinanti, dal Bahrein allo Yemen. «I sauditi si trovano in una posizione che consente loro di far pagare un prezzo a Washington per il sostegno alle rivolte arabe – osserva Paul Roberts, autore del volume “End of Oil” – ma l’esperienza ci dice che alla fine faranno soprattutto i loro interessi economici e il passato suggerisce che prezzi troppo alti non giovano agli interessi dei produttori».
Il nodo però sta proprio nella definizione di «prezzi alti» perché, aggiunge Roberts, «negli Anni Novanta i produttori pensavano fossero 30 dollari a barile, ma poi si accorsero di averli molto sottostimati ed ora sono alla ricerca di una nuova banda di oscillazione» condizionata «dalle richieste in crescita da parte delle economie emergenti, a cominciare dalla Cina, e dai maggiori costi di estrazione in Kazakhstan e Siberia, assai più alti rispetto al Medio Oriente». Ironia della sorte vuole che il fronte pro prezzi alti sia guidato dall’Iran di Mahmoud Ahmadinejad, presidente di turno dell’Opec per la prima volta dal 1975, e dunque «se i sauditi scegliessero di sostenere tale posizione si troverebbero in sintonia con i loro più acerrimi rivali» osserva Myers Jaffe. «Iran e Nigeria vogliono i prezzi alti perché il loro bilancio dipende molto dal greggio – aggiunge Roberts e non badano troppo ai danni che ciò arreca a Usa, Ue, Giappone e anche Cina». Sulla posizione di Teheran pesa tuttavia l’interrogativo delle tensioni interne al regime perché Ahmadinejad avrebbe voluto essere lui a presiedere il summit – e per questo si era autonominato ministro del Petrolio ma poi ha dovuto fare marcia indietro su richiesta del Consiglio dei Guardiani – la maggiore autorità  legale della Repubblica Islamica – assegnando l’interim a Mohammad Aliabadi che potrebbe non perseguire la strategia di scontro diretto con l’Occidente auspicata dal Presidente.
A complicare ulteriormente il summit c’è il fatto che la Libia sarà  presente con due delegati, uno mandato dal regime di Muammar Gheddafi e l’altro designato dal governo dei ribelli di Bengasi, con il conseguente rischio di una spaccatura fra i 12 membri perché al momento solo tre di loro – Qatar, Emirati Arabi e Kuwait – si sono schierati, con aiuti militari o economici, a sostegno della rivolta mentre l’Algeria sul fronte opposto è stata la più esplicita nel denunciare le «interferenze straniere in Libia». Poiché proprio il greggio libico costituisce gran parte degli 1,4 milioni di barili mancanti a causa delle rivolte, il rischio di una sovrapposizione fra crisi militare e definizione dell’output collettivo esiste.
Tanto più che è la prima volta dall’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein – nell’agosto 1990 – che l’Opec si trova spaccata a causa di un conflitto arabo. «Ma proprio per il fatto che ciò che manca sul mercato è il petrolio leggero libico potrebbe esserci un compromesso» suggerisce Myers Jaffe, riassumendolo così: «Usa, Ue e Giappone hanno greggio leggero nei loro depositi e potrebbero metterlo sul mercato ricevendo in cambiodai sauditi greggio di tipo diverso, per ricostituire le loro scorte». Sempre ammesso tuttavia che Riad voglia tendere la mano all’amministrazione Obama, la cui maggiore preoccupazione è un’estate con il prezzo della benzina oltre la pericolosa soglia psicologica dei 4 dollari a gallone, vissuta come un incubo dalle famiglie del ceto medio.


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