Precari nell’era della flessibilità 

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Per colmo di sventura, i precari hanno la sfortuna che rendere pan per focaccia non funziona altrettanto bene, a essere meglio di Brunetta non si ricava nessuna consolazione, né ci si rende protagonisti di una qualche impresa memorabile. Il protrarsi psicologico della «giovane età » oltre la soglia convenuta in tempi nemmeno troppo lontani, il procrastinare la propria incertezza professionale, l’ostinazione – a volte cercata a volte subita – nel vivere come ventenni quando di anni se ne hanno trenta o perfino quaranta è un fenomeno destinato a stabilizzarsi e a estendersi in tutte le sfere in cui si esprime la natura umana. La precarietà  lavorativa tradotta in precarietà  di inserimento investe tutte le articolazioni sociali degli affetti, coinvolgendo anche chi non sarebbe direttamente interessato dal fenomeno e alterando silenziosamente la psicologia collettiva, soprattutto per ciò che riguarda la percezione del tempo attraverso l’elaborazione delle perdite, che prima o poi ognuno di noi si trova a subire. Il blocco psicologico rispetto alla propria immaginazione del futuro, uno dei sintomi più evidenti della introiezione di uno stato di precarietà , si intreccia con l’interruzione di un rapporto adeguato con la propria storia. Vivere alla giornata non preclude la presa sul futuro, se il legame con il passato resta solido. Anzi, attendere tempi migliori stando «a maggese», come i terreni agricoli messi a riposo in attesa di venire seminati, è periodicamente necessario. Basta saper leggere i segni del possibile cambiamento in arrivo con lo sguardo di un sapere costruito nel tempo. Ma è il rapporto stesso con il passato a venire disturbato quando la precarietà  delle nostre condizioni è così estesa a tutte le forme di vita da distoglierci da quel lavoro del lutto necessario sia per dare un senso di continuità  alla nostra esistenza sia per affermare la discontinuità  indispensabile per un suo rinnovamento. Se la vita si riduce a coincidere con un presente difficile da far passare, il rischio è quello di rimanere prigionieri di un circuito vizioso in cui al lutto delle certezze infrante si aggiunge il lutto delle scelte non fatte a tempo debito. Le società  malate di precarietà  rischiano di perdere il rapporto con la loro storia e tendono ad aggrapparsi a una reinterpretazione del passato mitizzata, smarrendo la strada di quella elaborazione a doppio senso che è fatta di valori da trasformare, e valori da recuperare. Se la sensazione di una perdita viene proiettata nel futuro, il presente si colora di spirito conservatore, e il significato stesso della perdita diventa opaco, mentre la sua possibile riparazione è vanificata. Così, la speranza di un futuro migliore prende la forma della resurrezione di un passato idealizzato e si trasforma in dispersive chimere. Quanto alla tanto invocata (dal mercato del lavoro) «flessibilità », essa non è altro che una precarietà  programmata.


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