Petrolio, intaccate le riserve strategiche

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NEW YORK – Un gesto inatteso, frutto di negoziati segreti durati per molte settimane. Una manovra-shock per rilanciare la crescita con un occhio alle presidenziali del 2012. Un’offensiva geostrategica contro i regimi reazionari dell’Opec. Ha molte interpretazioni la mossa di Barack Obama che ha inondato di colpo il mercato con le riserve strategiche di petrolio: un gesto raro, che ha solo due precedenti (l’invasione irachena del Kuwait nel 1990; l’uragano Katrina). Una sorpresa che i mercati non hanno affatto gradito: ha trascinato al ribasso oltre al petrolio anche le Borse, già  depresse per la Grecia, il pessimismo della Fed, il rialzo della disoccupazione, infine la rottura dei negoziati al Congresso sul debito Usa.
L’America lavorava da tempo per preparare il colpo: è riuscita a coalizzare gli altri paesi consumatori membri dell’Agenzia internazionale dell’Energia (Aie). Tutti insieme ieri hanno annunciato che mettono sul mercato 60 milioni di barili di greggio dalle rispettive riserve strategiche: 50% gli Stati Uniti, 30% gli europei, 20% gli asiatici. Ha il sapore di un castigo all’Opec, a cui era stato richiesto invano di aumentare la produzione per compensare la mancanza di 1,4 milioni di barili giornalieri di petrolio libico. Per alcuni paesi Opec è un brutto colpo: nelle prime ore dopo l’annuncio il greggio ha perso dal 4,8% al 6% (Brent), in una fase in cui certi regimi autoritari del Golfo persico puntano sull’aumento dei ricavi petroliferi per “comprare” la pace sociale con generose elargizioni alla popolazione. Obama aveva detto la sua «preoccupazione per l’impatto del rincaro energetico sulla crescita».
Le maggiori critiche alla decisione di ieri sono venute dal fronte interno agli Stati Uniti, dove il ricorso alle riserve strategiche è stato immediatamente interpretato in chiave politico-elettorale. Anche se quelle riserve Usa sono ai massimi storici (727 miliardi di barili), in passato era invalsa la regola di usarle solo per fronteggiare autentiche emergenze. Lo stesso Obama aveva sempre rifiutato di considerarle come un “calmiere dei prezzi” per attutire l’impatto dei rincari della benzina sull’automobilista americano. La guerra in Libia è un’emergenza sufficiente? Ne dubita perfino un autorevole esponente democratico, il senatore Jeff Bingaman che presiede la commissione Energia: «Sarebbe stato meglio deciderlo non appena crollarono le forniture del petrolio libico, cioè quattro mesi fa».
Nelle ultime settimane il prezzo del petrolio stava già  scendendo per conto suo, anche se la benzina alla pompa in America continua a costare il 25% in più di un anno fa. La vera emergenza è proprio questa: il caro-benzina è in testa alle preoccupazioni dell’opinione pubblica, in una fase in cui la debolezza dell’economia penalizza duramente Obama nei sondaggi e può compromettere le sue chance di rielezione. I petrolieri americani, furiosi perché il calo dei prezzi ha provocato ribassi nei titoli delle loro società , ieri hanno accusato la Casa Bianca di bieche manovre elettorali. Ma il calo delle Borse è stato generalizzato, perché provocato da un insieme di fattori negativi. I mercati hanno continuato a “digerire” l’allarme lanciato da Ben Bernanke sul pericolo di un contagio della crisi greca. La fiacchezza della ripresa americana è stata confermata ieri da un aumento della disoccupazione: le richieste di nuove indennità  dei senza lavoro sono risalite a 429.000 su base settimanale. Un brutto colpo di scena anche al Congresso di Washington: la delegazione repubblicana che stava negoziando i tagli al deficit pubblico ha abbandonato il tavolo bipartisan. Ora solo l’intervento personale di Obama può salvare il dialogo in vista del 2 agosto, quando verrà  raggiunto il limite massimo del debito pubblico.

 


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