Partiti divisi e schieramenti più vicini sull’acqua il referendum che spariglia

by Sergio Segio | 3 Giugno 2011 15:11

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ROMA – Cosa hanno in comune il sindaco siciliano di Menfi e quello leghista di Bardolino? I vescovi e i centri sociali? Hanno in comune un bene, anzi un bene comune: l’acqua. E per difenderlo dalla speculazione e dalla logica del profitto hanno deciso di schierarsi a favore dei referendum contro la privatizzazione delle reti idriche del 12 e 13 giugno. Se è vero che raggiungere il quorum sarà  molto difficile, una delle chiavi per un eventuale successo è proprio la trasversalità  del sostegno al “sì” ai quesiti che riguardano la gestione degli acquedotti. Non solo quella tutto sommato poco sorprendente tra l’area anticapitalista dei no global e il richiamo della Cei  al francescano “molto utile et humile et pretiosa et casta sor Aqua“, ma anche quella che passa dentro partiti e coalizioni.

La campagna per il voto su legittimo impedimento e nucleare si è caratterizzata da subito come uno scontro politico tra opposizione e governo, ma sul tema dell’acqua le cose stanno diversamente. Da sempre si tratta di una questione che divide gli schieramenti al loro interno e anche l’apparente compattezza ostentata attualmente dal Partito democratico non deve trarre in inganno. I referendari ricordano ancora l’estremismo filo privatizzazione di Linda Lanzillotta, ex ministro per le Autonomie locali nel governo Prodi ora nell’Api di Francesco Rutelli, ma tentazioni “liberiste” non sono mancate in passato neppure all’attuale segretario Pierluigi Bersani.  Posizioni che nel partito hanno convissuto a lungo con quelle della componente ecologista e più “movimentista”. “Ma tutto sommato nel Pd quando era al governo la posizione favorevole alla logica del mercato era maggioritaria”, rievoca Stefano Ciafani di Legambiente.

Malgrado la passate ambiguità  del centrosinistra, le due norme sulle quali i cittadini saranno chiamati a pronunciarsi il 12 e 13 giugno portano comunque la firma del governo Berlusconi. Provvedimenti varati nonostante i mal di pancia della Lega, per la quale il passaggio della gestione dal pubblico ai privati rappresenta sia un problema ideologico che di potere. Da un lato per il partito del federalismo è difficile giustificare l’arrivo nelle “sue” valli di imprese “forestiere” interessate a fare i soldi con le sorgenti “padane”. Dall’altro anche le municipalizzate più grandi e solide come quelle di Milano e Brescia hanno da temere dall’apertura di gare per la gestione della rete idrica che le vedrebbero in concorrenza con multinazionali in grado di far pesare le loro risorse finanziarie e di impossessarsi non solo del servizio, ma anche di un eccezionale strumento di potere.

Una contraddizione che a suo tempo il Carroccio ha cercato di risolvere inserendo nella contestata “legge sviluppo” del 2008 un emendamento su misura che permette deroghe nella privatizzazione dell’acqua “per situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato”. Una frase che potrebbe essere tranquillamente tradotta così: “Avanti con la privatizzazione, però in Val Brembana e nelle altre valli facciamo come ci pare”.

Ma evidentemente la rassicurazione non è stata sufficiente perché in questi mesi, molto prima che lo stesso Umberto Bossi ammettesse che i quesiti sono “attraenti” , il numero di amministrazioni comunali del Lombardo-Veneto che si sono schierate per “la tutela dell’acqua bene comune” si è andato moltiplicando, fino al clamoroso manifesto del sindaco di Belluno Antonio Prade con i “dieci buoni motivi per votare sì al referendum”. Naturalmente c’è anche chi ha preferito non esporsi e non ha preso posizione, ma Walter Bonan, del comitato veneto “per l’acqua bene comune”, la situazione la fotografa così: “Ho fatto decine e decine di iniziative in comuni e piccoli centri. Magari a volte di gente ce n’era poca perché l’informazione soprattutto all’inizio scarseggiava, ma non è mai successo che qualcuno si alzasse per difendere la privatizzazione”.

Ancora più in là  nella battaglia per l’acqua pubblica si sono spinti gli amministratori siciliani, regione dove la sinistra non brilla certo per numero di municipi controllati. Sull’Isola, che grazie allo statuto autonomo e all’intraprendenza dell’ex presidente Totò Cuffaro ha sperimentato la privatizzazione degli acquedotti con qualche anno d’anticipo, si è coalizzato un vastissimo movimento d’opposizione al quale hanno aderito oltre 140 giunte locali. “C’è stata una mobilitazione straordinaria da parte di amministratori di tutti i colori politici a sostegno della legge regionale d’iniziativa popolare che sancisce il divieto di mercificazione delle risorse idriche, anche perché qui è un impegno che si intreccia con quello per la legalità “, ricorda Antonella Leto del Forum siciliano dei movimenti per l’acqua.

Un impegno davvero straordinario perché a differenza che al Settentrione, dove tutt’al più si può finire espulsi dal partito, in Sicilia ci si spinge fino a rischiare la vita. Come sta accadendo a Michele Botta, sindaco di centrodestra di Menfi, nell’agrigentino. In prima fila a sostegno della campagna “per l’acqua bene comune”, Botta, come altri suoi colleghi, è stato più volte oggetto di minacce mafiose, compreso l’invio di una busta con un proiettile.

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