Noir, complotti e auto-fiction oggi lo scrittore deve esagerare

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Con il saggio Senza trauma. Scrittura dell’estremo e narrativa del nuovo millennio (Quodlibet, pagg. 115, euro 12), Daniele Giglioli fa piombare il lettore all’interno di quella drammatica “crisi dell’esperienza” denunciata da Walter Benjamin. C’è una battuta del libro che spiega bene di che cosa si tratta: «Non è da tutti farsi succedere qualcosa». La frase sembra semplice, ma nasconde un’implicazione rilevante. Infatti, a ben vedere, “farsi succedere qualcosa” significa non una, ma due cose: da un lato essere oggetto o soggetto di un avvenimento, dall’altro saperlo assorbire tanto a fondo da raccontarlo. Ebbene tutto questo è adesso merce rara, come dimostra il romanzo italiano contemporaneo.
La lettura proposta da Giglioli muove dalla constatazione di un radicale cambiamento storico. A differenza di oggi, un tempo ognuno aveva qualcosa da tramandare. Da Baudelaire a Beckett, la modernità  si è nutrita di traumi effettivi: industrializzazione, inurbamento, secolarizzazione, modernizzazione tecnologica, guerre mondiali, armi di distruzione di massa. Ma tutto ciò, oramai, è tramontato. L’unico trauma dei nostri narratori, è quello di non averne avuti: «La televisione è stata il nostro Vietnam, un bombardamento di immagini che non generano esperienza, ma la requisiscono, rendendola impossibile da descrivere senza il ricorso a immagini che nulla hanno a che fare con l’esistenza quotidiana».
Così, nell’era del trauma senza trauma, costretti a vivere ciò che Jean Baudrillard definì l’umiliante “sciopero degli eventi”, gli scrittori hanno dovuto elaborare nuove strategie. Davanti a tale fenomeno, spiega Giglioli, la letteratura ha reagito rincarando la dose, facendosi cioè scrittura dell’estremo. Se l’autore non ha patito traumi, in compenso la sua opera dovrà  non solo simularli, ma accentuarli, per acquisire le stimmate del vero, anzi, di un vero più vero del vero. Da qui la conclusione: «La crudeltà  è garanzia di autenticità , l’eccesso include la norma, la verità  non è sotto la pelle, ma è la pelle nel momento in cui viene strappata». E’ questo che giustifica l’odierna predilezione per la violenza, il sangue, la morte, il complotto, il tradimento, il segreto e la paranoia, ossia per quella modalità  di indistinzione tra soggetto e oggetto che Julia Kristeva ha chiamato “abiezione”.
La scrittura dell’estremo (basti pensare agli orrori svelati dal noir) è dunque la poesia di un tempo di paralisi. A qualcosa di simile allude Arturo Mazzarella in Politiche dell’irrealtà . Scritture e visioni tra Gomorra e Abu Ghraib (Bollati Boringhieri, pagg. 116, euro 14). Spaziando dal cinema alla narrativa, il libro commenta le foto del carcere iracheno proprio in base alla nozione di “oscenità “. Quanto al versante letterario, Mazzarella confronta l’opera di Capote, Sciascia e Ellroy (insieme a quella di Franchini, Balestrini e Cordelli), con Gomorra, sollevando alcune obiezioni su quest’ultimo testo. Lo studioso, cioè, mette in dubbio la fiducia attribuita da Saviano alla funzione dell’autore-testimone, che ambirebbe a una sorta di statuto speciale. L’identità  di Saviano-personaggio, scrittore e testimone delle vicende narrate, si dimostrerebbe fragile e incerta, come se egli fosse “incapace di raccontare senza ricorrere al supporto decisivo della sua presenza fisica”. Questa osservazione però non coglie il carattere performativo di un’esperienza senza precedenti, che attraverso la “fatwa” che ha colpito Saviano svela il carattere essenzialmente religioso del fenomeno camorristico. Ma torniamo a Giglioli: una volta chiarito l’orientamento dell’ultima narrativa italiana, il suo testo passa ad analizzare le forze in campo. Per farlo, vengono esaminati i due più fortunati filoni editoriali capaci di assicurare al lettore un forte investimento realistico: da un lato la narrativa di genere (giallo, noir, thriller, fantascienza, romanzo storico), dall’altro la galassia della non-fiction (reportage, autobiografia, autofinzione, saggistica a dominante narrativa). Per Giglioli, la letteratura di genere aspira a costituirsi come una controstoria segreta della società  italiana contemporanea. Ecco allora scorrere i nomi di Camilleri, Lucarelli, De Cataldo, De Michele, Ammaniti, Evangelisti, Wu Ming o lo stesso Scurati. Da parte sua, la non-fiction inscena invece un rapporto con la realtà  a partire dalla presenza debordante di un “Io abnorme”.
Come si legge in un capitolo interamente dedicato a questa espressione, è come se a un troppo vuoto supplisse un troppo pieno, a un ammanco di soggetto, un eccesso di Io. E qui, sul piano delle diverse tipologie di manipolazione biografica, sono chiamati in causa Franchini, Saviano, Jones, Janeczek, Trevi, Siti, Moresco, Pecoraro, Nove e Genna (fra i pochi a praticare sia non-fiction, sia letteratura di genere). A chiusura di libro, restano due impressioni. Per un verso, Giglioli dà  prova di estrema competenza, muovendosi in uno spazio fluido e metamorfico come quello della narrativa in fieri. Il suo rappresenta un intervento di critica militante svolto in maniera impeccabile, sia individuando la fisionomia dello scrittore attuale (un “senza trauma” vicino a certi anti-eroi di Kafka o di Pessoa), sia indicando le due soluzioni prioritarie (genere e non-fiction). D’altro canto, però, la sua operazione rifiuta ogni giudizio di valore: «Chi è alla ricerca di un canone, di una classifica o di una tabellina, è pregato di lasciare immediatamente queste pagine».
Rispetto alle semplificazioni degli ultimi anni (inaugurate da un critico di vaglia come Harold Bloom!), il fastidio di Giglioli è comprensibile. Eppure, sottolineare la riuscita di un’opera, la sua radianza e la sua epifania (per usare due termini cari all’autore), dovrebbe completare lo sguardo del cartografo, per trasformarlo in quello di una guida.

 


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