Nella Turchia felix che sceglie Erdogan “Addio Europa, facciamo da soli”

by Editore | 14 Giugno 2011 7:44

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ISTANBUL – «Tu, tu, Istanbul, amo te, mi fai impazzire». Le allegre e ritmate note dell’ultimo successo di Sertab Erener, bionda cantante già  vincitrice dell’Eurofestival, inseguono il visitatore nei vicoli del quartiere di Beyoglu. Tra un club di musica rock e un negozio di mappe su Costantinopoli, bisogna farsi largo tra una folla indistinta e colorata. Seduti fianco a fianco, turisti stranieri e cittadini istanbulioti consumano scambiandosi, nei cento ristorantini all’aperto, piatti speziati a base di pesce. Poi brindano insieme, e guardandosi negli occhi (sennò è tradimento), incrociano i loro calici colmi di rakì, il liquore d’anice che è la bevanda nazionale. «Sherefè!». All’onore.
Cin cin, Turchia. Viaggiatori e cittadini celebrano il tuo boom. Un Paese ormai diverso dall’immaginario di quelli che rimangono a casa e che non sanno. Al ritmo forte della musica si sale un po’ più su, fino a Istiklal Caddesi, via dell’Indipendenza, centro della metropoli. Nella sera profumata il tramvai rosso che scarrozza i turisti, con i mocciosi attaccati ai tiranti, ha aggiunto un vagone in più: e un’orchestrina jazz, con piatti e banjo, allieta il cammino dei viandanti. Da un negozio un gelataio col fez in testa chiama i bambini e offre loro prelibate palline con uno ricciolo di cioccolato che sembra non finire mai. Dalla parte opposta, sulla discesa che porta alla Torre di Galata, hanno rifatto il selciato, e negli edifici ristrutturati gli italiani ricchi prendono casa all’ultimo piano, quello con vista sul Bosforo.
Turchia felix. L’altro giorno un rapporto del think tank ECFR, Consiglio europeo sulle relazioni estere, riuniva nove saggi di esperti. E la conclusione, a chiare lettere, è: «La Turchia non è più il Paese che l’Occidente conosceva un tempo». Scrive nell’introduzione uno degli analisti, Dimitar Bechev: «Ankara non sta più bussando impetuosamente alle porte dell’Unione Europea, ma ha costruito una politica su più vettori. I legami con la Russia si sono rafforzati. Le imprese turche si stanno facendo largo in posti lontani come Africa e America Latina. La Turchia ora è un attore, un polo economico, e forse un aspirante egemone della regione – oppure un “fattore d’ordine”. Il paradosso è che nel corso del processo il Paese è diventato simile a noi: globalizzato, con libero mercato, e democratico».
Ma il miracolo del Bosforo non riguarda solo la spinta della diplomazia e della politica estera. Lo sviluppo dell’economia (la sedicesima al mondo, la sesta in Europa!), l’abbattimento dell’inflazione, l’aggiustamento della disoccupazione, si toccano con mano pure lontano da Istanbul. Non solo sulla costa occidentale, in città  come Smirne e Bursa, tradizionalmente vicine al partito socialdemocratico uscito rafforzato dal voto di domenica. Ma anche nei centri più interni, giù fino alla Cappadocia. Città  come Eskishehir, Gaziantep, Konya, Kayseri, Yozgat, e cento altre, le tigri dell’Anatolia, sono un serbatoio di voti e di interessi commerciali formidabili nelle mani delle congreghe religiose che hanno consegnato metà  del Paese (49,9 per cento dei consensi) al Partito giustizia e sviluppo del premier Recep Tayyip Erdogan. E ognuno di questi posti lontani è ordinato, laborioso, rispettoso dell’ambiente.
La parola d’ordine è la cultura del servizio. Nei ristoranti i camerieri non bofonchiano annoiati e irritanti, ma circondano il cliente di attenzioni. I barbieri, di estrazione militare, fanno la barba con tre colpi. E nei bagni turchi gli inservienti ti lavano e ti strizzano come nemmeno tua madre ha mai fatto.
Sull’autobus che collega il Paese da Kayseri ad Ankara, e da qui a Istanbul – come gli altri mille che attraversano la Cilicia e il Sud est curdo, il Mar Nero e le lande della Cukurova – lo steward magro che si aggira fra i sedili portando in equilibrio tè e pasticcini per i viaggiatori assetati, sembra un ballerino di scena tanto è agile nei movimenti e pronto alle cadute per qualche improvviso scossone. La compagnia aerea di bandiera – un tempo presa in giro dai connazionali che traducevano la sigla Turk Hava Yollari in “They hate you” (loro ti odiano) – è diventata secondo i dati specializzati una delle primissime aviazioni commerciali al mondo. Servizio di lusso a bordo, una flotta che continua a crescere, rotte e destinazioni sempre nuove.
Ma è la cultura a fare premio su tutto. Non meno di trenta università , fra pubbliche e private, rivaleggiano disputandosi i professori migliori. E ora dall’America gli studenti tornano nei campus che si affacciano sul Bosforo. Gallerie d’arte nascono ovunque, e gli artisti fanno a gara per esporre al nuovo Museo d’arte moderna. I registi, da Ferzan Ozpetek a Fatih Akin, da Nuri Bilge Ceylan a Semih Kaplanoglu, sbancano i festival del cinema, da Cannes a Berlino. E ovunque la cinematografia turca commuove e appassiona per intensità  e delicatezza. Per non parlare della cucina e della qualità  della vita. La gente è fiduciosa. Lavora e si diverte. Non stupisce allora se i lettori del Financial Times hanno appena eletto, fra tutte le città  del mondo, Istanbul come la «preferita, vivibile e amabile».
Qui ora si respira un’aria diversa. Il Paese è cambiato. Quanto è lontano da quello in bianco e nero, perennemente sconfitto, «il malato d’Europa» descritto dai suoi scrittori più celebrati. I nodi da sciogliere certo rimangono. Sia quelli interni: libertà  di espressione, diritti umani, tutela delle minoranze; sia quelli esterni: Cipro e Armenia, innanzitutto. Ma nelle urne, insieme alla scheda, l’altro giorno i turchi hanno depositato anche la loro speranza. Per un voto che si è concentrato su pochi partiti. E tutti hanno vinto, per motivi diversi: islamici, socialdemocratici, lupi grigi, curdi. E’ proprio vero. La Turchia, oggi, è un Paese felice.

 

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