Messaggio agli Usa dal processo

by Editore | 4 Giugno 2011 7:04

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 Poco più di sessant’anni fa, il poeta polacco Czeslaw Milosz scrisse una poesia indirizzata ai torturatori e ai carnefici di massa di uno dei periodi più sanguinosi della storia europea. «Non sentirti al sicuro tu che hai fatto male a una persona qualunque» mise in guardia. La gente potrà  anche sperticarsi in elogi adulatori nei tuoi confronti, ma “il poeta ricorda”. Poeta pamieta.
A quei tempi un genocida doveva aver paura soltanto di questo, che un poeta ricordasse. Un periodo post-1945 di responsabilità  internazionale molto imperfetta, rappresentata dai processi di Norimberga ai leader nazisti e dai trattati che stanno alla base delle leggi umanitarie internazionali, sbiadì dietro le cortine di ferro e le convenienti amnesie della guerra fredda. I mostri morirono nei loro letti, con le medaglie ancora appuntate alle uniformi chiuse negli armadi. Soltanto il poeta ricordava. Il poeta e le persone normali, se erano ancora in vita.
Quegli ideali post-1945, tuttavia, non si sono mai dissolti del tutto. Dagli anni Settanta in poi, dall’America Latina al Sudafrica, dal sud-est asiatico all’Europa sudorientale si sono andate sviluppando varie forme di responsabilità : commissioni incaricate di appurare la verità , indagini giudiziarie, aperture di archivi, divieto per gli individui compromessi di detenere incarichi pubblici, processi a livello interno e internazionale.
Ognuna di queste forme di responsabilità  ha una sua opportuna collocazione, ma un tribunale internazionale è quanto di meglio si sia escogitato finora per giudicare il più spregevole tra gli spregevoli: colui che è attendibilmente accusato di aver commesso crimini contro l’umanità . Nei tribunali nazionali si effettuano in genere acrobazie legali, e predominano forti sospetti di un’agenda politica di parte. Che un tribunale egiziano infligga all’ex presidente Hosni Mubarak una multa di 34 milioni di dollari per aver oscurato Internet è davvero il modo giusto di affrontare la sua responsabilità  politica nel precedente regime? Naturalmente, le forze armate egiziane lo credono, ma in definitiva ciò distoglie l’attenzione dal ruolo colpevole da loro stesse avuto sotto il regime di Mubarak.
I tribunali internazionali, quali il tribunale speciale per l’ex Yugoslavia che custodisce Mladic, e il Tribunale Penale Internazionale (Tpi), non sono esenti da molteplici riserve. Escludendo la lentezza dell’iter giudiziario – in virtù della quale per esempio l’ex leader serbo Slobodan Milosevic è morto all’Aja senza essere stato dichiarato colpevole – la maggior parte di queste riserve si riduce in sostanza all’accusa di utilizzare due pesi e due misure.
«Perché», strillano molti serbi, «chiamare in giudizio soltanto i serbi, e non i croati e i bosniaci?». L’accusa è del tutto infondata. Oltre a Milosevic, Mladic e Radovan Rakadzic, il tribunale ha condannato il generale croato Ante Gotovina e sta attualmente riprocessando Ramush Haradinaj, leader guerrigliero kosovaro albanese.
«Perché», chiedono altri, «vi limitate a mettere sulla graticola i pesci grossi e lasciate nuotar via i pesci piccoli?». Questo è vero, ma inevitabile. Non è immaginabile processare tutte le decine di migliaia di colpevoli, con diverse responsabilità , delle atrocità  commesse da una qualsiasi dittatura. O si crede che sia forse meglio il contrario: catturare i pesciolini e lasciare liberi i pesci grossi? Questa fu l’accusa peggiore lanciata al processo di denazificazione avvenuto alla fine degli anni Quaranta. Io la penso così: se ci si può occupare soltanto di pochi pesci, meglio mettere sulla graticola quelli più grossi.
Poi, naturalmente, c’è anche chi obietta: «Perché perseguite Tizio e non Caio?». Perché Milosevic e il liberiano Charles Taylor, ma non il burmese Than Shwe o il siriano Bashar al-Assad? Le risposte a questa domanda sono molteplici: la prima è che se non è possibile catturare tutti gli assassini non significa che non se ne possa catturare almeno qualcuno. La seconda è che forse il Tpi dovrebbe perseguire anche Caio. E la terza è che risposte diverse non sempre voglion dire due pesi e due misure.
Se un leader varca la soglia gravissima che lo qualifica per un’accusa di crimini contro l’umanità , allora dovrebbe essere passibile sempre e ovunque di un processo in un tribunale internazionale. Se, tuttavia, le sue infami azioni passate non arrivano a sfiorare quella fatidica soglia così grave, resta un margine per raggiungere un’intesa a livello locale. Per esempio, è sbagliato che il leader polacco Wojciech Jaruzelski che impose la legge marziale – ma non si macchiò di crimini contro l’umanità , e cercò di fare ammenda e favorire la transizione della Polonia verso la democrazia nel 1989 – ancora adesso, da vecchio, debba essere sotto processo per gli errori commessi all’inizio.
Indubbiamente, ben altra scelta più difficile si porrebbe qualora un leader come il libico Muammar Gheddafi, che ha terrorizzato il suo stesso popolo e sicuramente merita di essere perseguito penalmente, dovesse rivestire un ruolo come quello di Jaruzelski in una transizione negoziata. Pare, tuttavia, che non vi siano segnali di nulla del genere. C’è qualcuno disposto a sostenere sul serio che l’unica cosa che trattiene Gheddafi dall’abdicare dal suo ruolo di statista è il recente mandato di cattura spiccato dal Tpi?
Nel resto del mondo l’accusa di ricorrere ai due pesi e alle due misure è rivolta essenzialmente all’Occidente, e in particolar modo agli Stati Uniti. Dai dittatori dell’America Latina agli attuali governanti dell’Arabia Saudita, gli amici despoti di Washington colpevoli di omicidio se la sono sempre cavata, mentre i loro avversari sono esposti al rischio di essere assassinati. Tuttavia, escludo nella maniera più categorica che l’assassinio di Osama bin Laden appartenga a questa categoria.
Ebbene sì: in un mondo ideale bin Laden adesso sarebbe rinchiuso in una cella dell’Aja, qualche corridoio più in giù rispetto a Mladic, Gotovina, Gheddafi e molti altri. C’è qualcuno che si aspettava davvero che i servizi di sicurezza pachistani fossero affidabili al punto da consegnare bin Laden a un tribunale internazionale? Che lo dica, allora, al coraggioso giornalista pachistano che ha appena pagato con la vita i suoi reportage sugli stretti legami esistenti tra quegli stessi servizi di sicurezza e al-Qaeda. In un’operazione notturna, estremamente pericolosa, in territorio nemico, senza alcuna idea di che cosa possa nascondere bin Laden sotto la cintola, non ci si può aspettare che un uomo delle Navy Seals americane si fermi a leggere a quello spietato genocida i suoi diritti in base alle convenzioni delle Nazioni Unite. Questo, tuttavia, è stato – e tale dovrebbe rimanere – un caso molto eccezionale.
In generale, se la legge internazionale deve avere qualche chance deterrente nei confronti dei mostri futuri, allora gli Stati Uniti devono appoggiarla in concreto, e non soltanto a parole. Questo significa applicare la legge internazionale agli stessi Stati Uniti e non soltanto agli altri paesi. Oggi come oggi, invece, gli Stati Uniti non fanno neppure parte del Tribunale penale internazionale.
Se quanto è accaduto questa settimana a Ratko Mladic, con grande soddisfazione generale, ha una probabilità  di diventare una regola internazionale, più che un’eccezione momentanea europea, allora gli Stati Uniti dovranno appoggiare con tutta la loro autorità  e influenza quel tipo di istituzione che l’ha reso possibile. Per festeggiare degnamente l’arresto di Mladic, gli Usa dovrebbero entrare a far parte del Tribunale Penale Internazionale.
Traduzione di Anna Bissanti

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