Meno liberali più laburisti

by Editore | 18 Giugno 2011 6:00

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È il completamento di una parabola e la prova che il partito si sta muovendo in tutt’altra direzione. Si sta attrezzando a recuperare una visione più tradizionale, che per comodità  definiremmo neo-laburista. E del resto sono molti altri i segnali che dimostrano il nuovo trend. Innanzitutto il perdurare della Grande Crisi e la percezione diffusa che il grosso dei costi sociali debba ancora essere pagato. Il voto amministrativo di Milano con lo spostamento di consensi del lavoro autonomo verso Giuliano Pisapia segnala come un’ampia porzione di ceto medio, che non si è sentito tutelato dalla scelta del governo di investire tutte le risorse sulla Cassa integrazione, si sia rivolto al centrosinistra chiedendo asilo. Non dimentichiamo che nella dirigenza della sinistra non si è mai rimarginata la ferita causata dalla perdita (via Lega) di una consistente parte dell’insediamento sociale e operaio. In svariate occasioni il vertice del Pd è stato accusato di aver abbracciato masochisticamente la cultura di mercato e lasciato spazio alle incursioni a sinistra di Umberto Bossi e Giulio Tremonti. Infine l’esito dei referendum e anche la diffusione di una cultura dei social network orientata alla salvaguardia dei beni pubblici— l’acqua come l’occupazione — spingono anch’essi verso un approdo neo-laburista. Non è un caso che Stefano Fassina, responsabile economico del Pd, abbia formulato la richiesta di «un Piano per l’occupazione giovanile e femminile» , che almeno nel lessico rimanda alla Cgil Anni 50. Se poi spingiamo lo sguardo oltre Chiasso si può constatare come i partiti socialdemocratici segnalati in ripresa dai sondaggi elettorali abbiano recuperato audience non perché hanno sviluppato una convincente ricetta post-blairiana ma semplicemente perché si limitano a interpretare il mestiere di oppositori in periodo di recessione. Tutte queste riflessioni congiurano, dunque, nel legittimare gli slittamenti di cultura politica in corso dentro il Pd, che prima ha perso una figura di prestigio come Nicola Rossi e oggi in qualche misura prende le distanze dagli Ichino. Conseguenza immediata: i temi della libertà  economica (liberalizzazioni, privatizzazioni e lenzuolate) escono dallo spartito, come del resto è ampiamente dimostrato dalla scelta tutta politica di non ascoltare i dubbi sui referendum avanzati da personalità  come Franco Bassanini. Il Pd, dunque, nato come progetto modernizzatore e cosmopolita, pone oggi più attenzione al consenso e all’insediamento sociale. Come tornasse alla ricerca di un «suo popolo» e in questa indagine ponesse attenzione prioritaria alle partite Iva, ai precari, ai blogger. Siccome questa strategia, almeno nel breve, ha pagato con il raggiungimento del quorum e anche con la ripresa di gradimento del Pd segnalato dai sondaggi a quota 29%, non si può pretendere di dare consigli di segno contrario.
La riflessione più sensata che si può avanzare dall’esterno è che una mini-svolta laburista rischia di far perdere al Pd il credito conquistato in questi anni negli ambienti più attenti alla cultura di mercato e che qualcosa hanno contato nelle performance elettorali di Pisapia e Stefano Boeri. Ma forse il pericolo maggiore per una forza che si ricandida in qualche modo a guidare il processo di uscita dalla crisi è quello di avvicinarsi al popolo ma allontanarsi dalle soluzioni. In più riprese in passato si è sviluppato un movimento politico culturale autodefinitosi lib-lab e che ha cercato generosamente di conciliare le due culture, la liberale e la laburista. Non ha conosciuto mai grande successo ma quel tipo di esercizio non andrebbe comunque disperso, perché se i problemi sono laburisti, nell’economia di oggi— e con le scadenze che attendono il nostro Paese — le soluzioni continuano ad essere liberali.

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