Malta accoglie. Ed esplode

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MALTA – Per prime, le donne. Sulle spalle, fasciati da panni colorati, tengono stretti dei bambini dagli occhi stanchi e disorientati. Poi scendono dal pontile della nave militare maltese gli uomini. Barcollano dalla stanchezza, in fila. Qualcuno si inginocchia e bacia il cemento delle banchine che si affacciano sul Canale di Gozo, nel cuore del porto di La Valletta. Sono arrivati in 76. Partiti da Misurata, fra le bombe e la guerra. Hanno pagato 200 dollari il loro biglietto. Prima della guerra attraversare il mare, per chi partiva dalla Libia, poteva costare fino a 1200 dollari. Ma ora il prezzo è al ribasso. Sono gli stessi soldati di Gheddafi a spingere i migranti dentro i barconi. Un compagno di viaggio dei nuovi sbarcati non ce l’ha fatta. Spossato dalla fame e dalla stanchezza, dopo cinque giorni alla deriva, non ha retto il sobbalzo di un flutto che si è andato a infrangere sullo scafo e si è lasciato cadere in mare. È scomparso fra la schiuma delle onde, davanti agli occhi terrorizzati degli altri profughi.
Dall’inizio della crisi in Libia sono sbarcati nell’arcipelago dello Stato di Malta 1529 migranti. Il primo arrivo è stato il 27 marzo. Il più recente è del 1° giugno. Si tratta quasi esclusivamente di barconi che puntano verso Lampedusa e le Pelagie, ma che poi si perdono sul piatto labirinto azzurro del Mediterraneo. Zigzagano senza meta. Terminano il carburante, finiscono alla deriva e non riescono a proseguire il loro viaggio. «Noi abbiamo il compito di intervenire in soccorso dei profughi e di condurli in porto solo quando si trovano in evidente stato di difficoltà  o sono essi stessi a chiederci aiuto. Altrimenti, se li troviamo nelle nostre acque territoriali, possiamo solo accompagnarli verso il porto più vicino», spiega Darrel Pace, portavoce del ministro dell’interno di Malta proprio mentre, a bordo di una motovedetta militare, stiamo andando ad assistere alle operazioni di salvataggio dei 76 migranti persi in mezzo al mare. Le sue parole sono una risposta diretta alla critica mossa dal ministro Maroni contro l’arcipelago maltese, accusato di «non soccorrere i barconi».
La scorsa settimana la Afm (Armed forces of Malta) ha accompagnato verso Lampedusa due carrette del mare con a bordo 209 e 912 profughi. Erano state intercettate nell’area di ricerca e soccorso che compete all’arcipelago maltese. Ma le autorità  locali non le hanno soccorse e trasportate in porto, scatenando le proteste formali di Maroni che si è rivolto alla Unione Europea per chiedere spiegazioni. «L’equivoco nasce dal fatto che la nostra zona marittima di ricerca e soccorso, la cosiddetta Sar (acronimo di search and rescue) è molto più ampia di quella italiana. Spesso, anche se intercettiamo delle imbarcazioni nella nostra area di competenza, il porto di riferimento più vicino è quello di Lampedusa, e non La Valletta», spiega ancora Darrel Pace. La Sar che compete a Malta è un area immensa, ereditata dalla colonizzazione inglese. È un trapezio di 250mila kilometri quadrati, pari a 750 volte la superficie dell’arcipelago, che si estende fino a lambire la Tunisia a ovest e Cipro a est, e che più volte La Valletta ha spiegato di non riuscire a gestire per la sua vastità . «I compiti che si richiedono ai responsabili della propria zona Sar sono soprattutto di coordinamento dei soccorsi. E noi facciamo questo. Quando intercettiamo un barcone in difficoltà , avvisiamo le autorità  della nazione a lui più prossima. Interveniamo solo se queste non riescono a portare soccorso», chiarisce il portavoce del ministero dell’Interno maltese.
Il barcone dei 76 appena salvati il 1° giugno dalla Afm era in avaria e alla deriva. Sono stati gli stessi passeggeri a chiedere soccorso a Malta. È il capitano Etienne Scicluna a spiegare tutte le fasi del salvataggio. Nelle prime ore del mattino di martedì una unità  operativa Nato ha avvistato un natante in difficoltà  nella Sar maltese e ha avvisato il Centro di coordinamento della Marina di Luqua Baracks. A quel punto è partito un aereo per localizzare i profughi e contemporaneamente è salpato un pattugliatore P-52, che è andato a recuperali. Il peschereccio pieno di uomini e donne, intercettato a 75 miglia marine da Malta, era in condizioni più che critiche, con lo scafo che imbarcava acqua. I passeggeri sono stati fatti salire sul pattugliatore e, raggomitolati in coperta, con indosso un giubbotto di salvataggio, sono stati accompagnati nel porto militare, sul Canale di Gozo, alla Valletta.
Qui, ad accoglierli, c’erano le forze dell’ordine. La legge di Malta prevede fino a 18 mesi di reclusione per chi arriva da irregolare. Periodo giustificato come necessario per inquadrare lo status del migrante. I settantasei arrivati – nigeriani, somali, ivoriani, sudanesi, ciaddiani, sierraleonesi e un bengalese – sono stati così portati nel commissariato centrale della polizia, per le impronte digitali. E poi smistati, nei due Closed Centre maltesi. Quello di Hall Far, per le donne e i nuclei familiari. E quello di Safi Barracks, per gli uomini. Accolti in camerate. Isolati dietro le sbarre. In attesa di sostenere i colloqui coi funzionari dello Stato e delle organizzazioni umanitarie sulla base dei quali verrà  deciso se dare loro lo status di rifugiato, o la protezione sussidiaria, oppure se considerarli migranti economici e quindi destinarli al rimpatrio coatto. Nelle camerate di Hall Far uomini e donne dormono distesi sui letti a castello. Nel 2010, e fino a febbraio 2011, il centro si era definitivamente svuotato. Da mesi l’arrivo dei migranti si era quasi azzerato, come nella vicina isola di Lampedusa. Ma dopo che i patti italo-libici sono saltati e con essi si è sbriciolata la muraglia difensiva eretta nel Mediterraneo, l’emergenza è di nuovo tornata. Nel centro ora risiedono più di 200 persone, arrivate negli ultimi tre mesi. Tutti gli altri si trovano nel Detention centre di Safi Barraks.
«Ero diretto in Italia. Scappavo dalle bombe di Misurata. Lì due miei amici sono morti – racconta uno dei nigeriano appena entrato, con indosso la maglietta arancione che viene distribuita ai reclusi – Io vengo dalle bombe. Ora voglio solo essere libero». I più esasperati sono i profughi arrivati a marzo e dentro da quasi tre mesi. Protestano, hanno il volto scavato della reclusione. Raccontano di essere salpati da tutti i porti della Libia. «Sono gli stessi militari, sulla costa, ad averci messo in contatto con gli organizzatori dei viaggi. Ci hanno spinto loro a partire», spiegano seduti in gruppo, in uno stanzone ricreativo del centro. Usciti da Hall Far, andranno a vivere nei cosiddetti “centri aperti” dell’isola. Qui, sistemati in una tendopoli, in dei container o in giganteschi hangar, alloggiano migliaia di migranti giunti a Malta a partire dalle prime ondate migratorie, già  sette anni fa. Nell’arcipelago stazionano già  più di 5000 africani. Che non possono muoversi da lì. A vietarlo è il regolamento di Dublino 2, che obbliga il migrante a rimanere nel primo Paese al quale si è rivolto per chiedere protezione umanitaria. Così per molti la prospettiva è quella di rimanere imbottigliati nelle tendopoli dello Stato-isola per anni. Mentre dalla Libia continueranno ad arrivare altri profughi.


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