L’odissea dei rom di S. Paolo
ROMA – Vi ricordate i rom che durante la settimana di Pasqua occuparono la Basilica di San Paolo a Roma? Di fronte all’irremovibile posizione del Comune di dividere donne e bambini dagli uomini, i primi destinati al Centro di accoglienza per richiedenti asilo di Castelnuovo di Porto, per gli altri la strada come «dimora», la Caritas romana si era offerta di trovare una soluzione. Così, dopo tre giorni di occupazione del territorio vaticano, per i circa cento rom si sono aperte le porte di un centro di accoglienza. Una vittoria per le famiglie rom. «Questa gente vuole integrarsi in vere abitazioni» aveva affermato monsignor Enrico Feroci, presidente della Caritas romana. «Sui poveri non si specula, assistiamo a una continua campagna elettorale sulla pelle dei più deboli» le parole di don Pietro Sigurani, primicerio dell’Arciconfraternita del SS. Sacramento e di S. Trifone e parroco della chiesa della Natività di via Gallia, tra le strutture indicate dal Comune di Roma per l’emergenza freddo. Fu proprio Don Pietro, in quei drammatici giorni, a ignorare l’invito della Gendarmeria vaticana di non parlare con i giornalisti. Tante promesse. Soprattutto tante speranze. Ma oggi, a distanza di oltre un mese, nessuno può sapere quale sarà il futuro delle famiglie rom ospitate. C’è solo una certezza: l’enorme capannone a destinazione d’uso industriale di Tor Fiscale, a pochi passi dal luogo dove il 6 febbraio morirono tra le fiamme della loro baracca Raul, Fernando, Patrizia e Sebastian. All’interno dell’ampio stanzone sono state adibite, senza alcuna divisione della privacy delle singole famiglie, decine di letti a castello, con circa 10 bagni chimici e 4 docce affittate, due per gli uomini e due per le donne, rigorosamente all’esterno, e un fornello all’aperto dove cucinare il sabato e la domenica «perché gli altri giorni gli portano il cibo già cucinato» ci racconta Gloria del comitato di Tor Fiscale. Cristian, associazione Popìca, che seguiva la comunità rom mentre viveva nell’accampamento abusivo a Casal Bruciato racconta che «per avere un po’ di privacy, almeno di notte, hanno fatto scendere delle lenzuola dalla parte superiore dei letti a castello che ora sembrano tante piccole stanze in un enorme spazio asettico». La notte «non si riesce bene a dormire» racconta un ragazzo che vive nel centro «ma siamo una comunità e cerchiamo di andare d’accordo». G. ha nove anni e il giorno in cui lo incontriamo ha appena di finito gli allenamenti di calcio per partecipare, con l’associazione Popìca, al torneo sportivo Mediterraneo Antirazzista di Palermo. Tutte le mattine G. si alza alle sei per raggiungere con i mezzi la sua scuola, l’Iqbal Masih. «Un orario che ha scoraggiato alcuni bambini che hanno abbandonato la scuola», racconta Gianluca di Popìca. «Ma quanto spendono per un posto dove queste persone non possono organizzare niente della propria vita?», si chiede Gloria del comitato di quartiere. Secondo il comitato qualche decina di migliaia di euro, ma questo non è dato sapersi. Così come è difficile capire chi sta gestendo la vita di queste persone. In una lettera destinata alle istituzioni i cittadini di Tor Fiscale scrivono che «il proprietario del capannone ha stipulato un contratto di 6 anni con la cooperativa sociale In Opera» che insieme alla cooperativa Un Sorriso lavora nel centro. Struttura che, con le medesime cooperative a lavorarci, durante l’inverno appena trascorso è rientrata tra quelle messe a disposizione dal Comune di Roma per l’emergenza freddo e per l’accoglienza dei profughi provenienti dal nord africa. Proviamo a parlare con i diretti interessati. Dalla coop Un Sorriso ci rimandano alla Domus Caritatis, che gestisce il centro. Con non poca sorpresa al numero della Domus Caritatis ci risponde l’Arciconfraternita che, pur negando che la Domus Caritatis sia una sua cooperativa, ci mette in contatto con il suo responsabile, Tiziano Zuccolo. Sarà un caso ma Tiziano Zuccolo è anche camerlengo dell’Arciconfraternita. «Stiamo aspettando di avere delle risposte dal Comune di Roma» spiega senza specificare chi, nel frattempo, stia pagando per mantenere cento persone dentro a un centro. Ci rimandano alla Caritas che però preferisce «non commentare nulla». Intanto aumenta la protesta tra la popolazione di Tor Fiscale. «Tanto è stato fatto per riqualificare questa borgata», racconta Gloria del Comitato del quartiere Tor Fiscale. Inevitabile la domanda: «Perché la Caritas non usa strutture più idonee per l’accoglienza di famiglie come l’edificio di sua proprietà vicino a Piazza Lodi o le foresterie dei complessi religiosi utilizzati per i turisti?». Per i cittadini nessuna risposta. Nemmeno la presidente del IX Municipio, Susi Fantino, è stata avvertita preventivamente sul trasferimento delle famiglie rom nel municipio da lei governato. Anche lei ha scritto ad Alemanno per avere informazioni sul futuro delle famiglie accolte nella struttura e sui termini degli accordi presi con la Caritas. «Ma niente, nessuna risposta da parte di un’amministrazione centrale che rifiuta ogni dialogo», denuncia. «Eppure il sindaco dovrebbe essere il garante di tutti i cittadini: ha stipulato degli accordi con la Caritas? Conosce le condizioni del centro? Ha un progetto per il futuro di queste persone? Sono domande a cui un sindaco dovrebbe rispondere» commenta. Ma di chiarezza nemmeno l’ombra. E a più di un mese dal trasferimento nessuno conosce la sorte di quelle famiglie stipate in un capannone. «Eppure molti di loro lavorano» conclude Cristian di Popìca «potrebbero permettersi un affitto in un alloggio a canone sociale senza bisogno di alcuna assistenza». Ma nella capitale del Piano Nomadi e dell’emergenza abitativa di una casa vera non se ne parla proprio. Meglio continuare con il business dell’accoglienza. Meglio se nelle mani dei soliti noti.
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