Lo Stato può recuperare 400 milioni l’anno così controllare un telefono diventa un affare

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MILANO – Tagliare i fondi, ecco la soluzione. Perché non serve fare una legge per togliere di mezzo le intercettazioni telefoniche. Basta non dare alle procure i soldi per pagarle o fare fallire chi si occupa di quel business. I conti sono presto fatti. «Il debito accertato nei confronti delle ditte e degli operatori telefonici è di un miliardo di euro», ha detto ieri il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, un debito che non dimostra quanto sia caro mettere sotto controllo il telefono di un presunto delinquente, ma semplicemente quanto il governo ha omesso di pagare alle aziende che si occupano di intercettazioni.
E non sono poche. L’Iliia, una sigla che sta per Italian lawful interception & intelligence association, ne raccoglie una cinquantina, ma ha certificato che le società  del comparto sono circa 120, danno lavoro a 2.500 dipendenti e hanno un fatturato annuo che si aggira intorno ai 350 milioni di euro. Su per giù significa che il governo non li paga da ben tre anni, sarebbe un ritardo di oltre mille giorni nel saldo delle fatture in grado di piegare qualsiasi impresa. Il grido di dolore è arrivato da Walter Nicolotti, il presidente della Iliia: «Dal 2008 quasi il 20% delle aziende del comparto è in liquidazione a causa dei mancati pagamenti da parte del ministero di Giustizia e nei prossimi sei mesi la situazione potrebbe precipitare causando gravi problemi alla lotta contro la criminalità ».
Eppure intercettare non ha un costo proibitivo, semmai è lo Stato che con un debito ormai insostenibile non ha più i soldi per nulla. E quando c’è da tagliare, la politica decide dove tagliare. Mettere sotto controllo un cellulare costa 12 euro al giorno, mentre un pedinamento non ha prezzo, visto che “l’attenzionato” potrebbe anche essere un globetrotter. Ogni anno, secondo l’Associazione nazionale magistrati, sono circa 40mila le persone sottoposte a intercettazione, e più o meno due milioni gli interlocutori che finiscono nei nastri delle inchieste.
Il premier Silvio Berlusconi ha gridato allo scandalo e allo spreco di soldi pubblici per il caso Ruby, che lo vede indagato di concussione dei poliziotti della Questura di Milano e di prostituzione minorile. In realtà , come sottolineato dal procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati, le spese per quel fascicolo sono state esigue, perché tutte le intercettazioni sono sinora costate alla collettività , poco più di 25 mila euro. Meno di un paio di feste di Arcore. Soltanto pochi «bersagli», come le utenze di Lele Mora e della stessa Ruby, sono stati intercettati continuamente dalla fine di luglio 2010 a metà  gennaio 2011. Nel caso delle ragazze ospiti delle feste, le intercettazioni non sono state indiscriminate, ma sono state attivate per singoli segmenti di tempo, cioè qualche giorno per volta, a ridosso di circostanze investigative ritenute potenzialmente interessanti.
Al di là  dei risultati sul fronte delle inchieste, soprattutto quelle legate alla criminalità  organizzata e ai colletti bianchi, le intercettazioni a volte portano anche dei benefici economici, soprattutto quando i giudici decretano sanzioni e recuperano soldi dagli imputati o dalle società  coinvolte. Per il processo Antonveneta di Milano, ad esempio, le intercettazioni tra cui quella famosa in cui il numero uno della Popolare di Lodi, Gianpiero Fiorani, schioccava virtualmente un «bacio in fronte» al governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, hanno fatto recuperare alle casse del Tesoro qualcosa come 400 milioni di euro, più del costo di un intero anno di intercettazioni di tutte le procure d’Italia.


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