by Editore | 19 Giugno 2011 16:21
NEW YORK – Il critico di cinema del Village Voice, Jim Hoberman, lo ha paragonato a Survivor. Ma oltre al tocco bruto, da reality sulla lotta per la sopravvivenza, Page One, il nuovo documentario di Andrew Rossi, sul New York Times, è avvolto da una mistica che è anche His Girl Friday e Front Page, e cioè da una fascinazione per il funzionamento della macchina dell’informazione «tradizionale», simboleggiata da quello che rimane il più celebre quotidiano del mondo. Calo delle vendite, scandali (Jayson Blair e Judith Miller), tagli in redazione, concorrenza sleale delle rete, il film di Rossi tocca tutto senza approfondire niente. Nel suo smagliante quartiere generale disegnato da Renzo Piano, il Times è un’istituzione in pericolo. Ma Page One si interroga meno sulla sua «fine» che sul suo divenire. Ne abbiamo parlato con il personaggio centrale del film, l’editorialista David Carr, reporter dal piglio anni trenta che per il ‘Times si occupa di giornalismo e nuovi media.
Lei si occupa con grande passione e curiosità di nuovi media ma nel documentario di Andrew Rossi è usato come il simbolo del giornalismo tradizionale..
Non ho mai creduto che i media tradizionali quelli digitali si escludano a vicenda. Quotidiani come il New York Times, o il Washington Post, investono moltissimo nella comunicazione digitale. Sul versante opposto, siti come l’Huffington Post o Gawker, appena hanno le risorse, assumono giornalisti di grande esperienza. È innegabile che la maggior parte dei contenuti fatti circolare dai social media derivino da fonti d’informazione tradizionale. Quindi, secondo me, quello che sembrava il mostro creato per distruggerci ha finito per diventare un ami(nemi)co.
Mostrando il funzionamento interno del giornale, il rapporto di continua verifica con gli editor, i capiservizio, e la discussione interna che determina la scelta di una storia…il film dimostra perché un’istituzione come il ‘Times non può essere sostituita da quello che oggi viene prodotto in rete. Secondo lei, è solo una questione di risorse o anche di far fede a una certo modello di ciò che costituisce informazione, una notizia?
Penso che l’idea di trovare qualcuno che ne sa più di te su un soggetto, che ha qualcosa di interessante da raccontare, parlargli e trarne un storia è un modello che tiene, non importa in che medium. C’è chi crede che si possa far circolare qualsiasi cosa lasciando che la rete stessa finisca per sputare un sorta di verità , secondo un processo di addizione e sottrazione progressiva. Prezioso com’è il tempo oggi, non credo che i consumatori vogliano delle mezze verità , un puzzle di cui devono mettere insieme i pezzi…È parte della ragione per cui, nomi fidati nelle news continuano a essere rilevanti.
Crede in una gerarchia dell’informazione? Arianna Huffington, per esempio, prevede un futuro «decentrato», a base di citizen journalism in cui chiunque può improvvisarsi giornalista.
I cittadini provvedono ogni sorta di informazione utile. I tweet della primavera araba sono stati un esempio. Ma, da soli, non raccontano una storia completa. A un certo punto, qualcuno deve alzare il telefono, controllare con chi è sul posto, confrontare i dati per verificarli Questo film è interessante perché illustra il ruolo specifico degli editor. Noi giornalisti abbiamo molte idee, alcune buone, ma sono loro che ci aiutano a mettere a fuoco la storia. Ho appena consegnato un articolo per la prima pagina e l’editor me lo ha rimandato indietro accompagnato di una lunga serie di quesiti. Non ho nessuna voglia di rimettere mano al pezzo, ma non posso contestare l’importanza delle sue domande.
Nel film, Daniel Ellsberg afferma che, se i Pentagon Papers fossero stati postati in rete e non pubblicati sul New York Times non avrebbero avuto lo stesso impatto. Julian Assange sembra avere tratto la stessa conclusione
Julian Assange è un uomo molto intelligente. Inizialmente credeva che, se l’informazione segreta fosse stata disponibile a tutti, tutti l’avrebbero consumata. Ma ha capito presto che per ottenere l’attenzione che desiderava era necessario muoversi in altro modo. Quindi ha forgiato delle partnership strategiche con quotidiani come il Guardian o il nostro. E, così facendo, ha sfruttato il muscolo giornalistico di queste istituzioni -per esempio per «redarre» i documenti eliminando certi nomi propri, e soprattutto per inquadrare narrative specifiche che accompagnassero quest’enorme carico di dati e dessero loro un senso che, in forma bruta, non avrebbero avuto.
La vostra non è stata una partnership facilissima e l’amministrazione Obama ha aspramente criticato la pubblicazione dei documenti.
Mr. Assange non crede che lo stato abbia il diritto di tenere segreta nessuno tipo di informazione, non importa di che cosa si tratta. Istituzioni come il ‘Times, il Guardian o Der Spiegel riconoscono che, a volte, il governo possa avere delle ragioni legittime per non rilasciare certi dettagli. Per noi, sperimentare in tempo reale il rapporto con Wikileaks, la necessità di verificare quella montagna di dati e di confrontarci con quello che dovevamo, o meno, al governo in termini di confidenzialità , è stato un esercizio straordinario. Non mi aspetto un’altra cosa di queste proporzioni in tempi brevi. Di Bradley Manning ce n’è uno solo. Venire in possesso di informazioni segrete è sempre stato difficile. E il fatto che Manning possa rimanere in prigione per il resto della sua vita darà da pensare ad altri potenziali leakers.
Il New York Times è uno dei quotidiani che più ha resistito ai tagli in redazione imposti dalla situazione economica e dal declino delle vendite. Ogni giorno, i suoi articoli, i dati che provvede, sono saccheggiati da organi d’informazione e blog di tutto il mondo. Il che ne fa una sorta di «bene pubblico». È d’accordo, come si sosteneva in una recente tavola rotonda promossa da The Nation, che questo tipo di informazione andrebbe protetta con dei sussidi?
Storicamente il governo non si è dimostrato particolarmente idoneo al business dell’informazione. Non per niente Npr e Pbs, le nostre radio e tv pubbliche, traggono una percentuale bassissima dei loro finanziamenti da fonti pubbliche. Io credo che le redini del quarto potere stiano meglio in mani invisibili, che in quelle di un governo. Per ogni successo che si può citare ci sono moltissimi fallimenti.
Che tipo di direttore sarà Jill Abrahmson, che entra in carica a fine agosto?
Lo scopriremo presto. Si sapeva che sarebbe succeduta a Bill Keller. Jill è un personaggio d’azione. Per lei il giornalismo è un vangelo. Lei e Bill sono stati partner molto stretti quindi mi stupirebbe un cambiamento drastico. Certo, ha i numeri per fare quello che vuole. È un grande animale da news. Se vuoi contraddirla su una storia è meglio che tu sia ben preparato perché è la sa veramente lunga.
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