Le zone franche dello sviluppo

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Politicizzare lo sviluppo: questo è l’obiettivo di Kalyan Sanyal, economista dell’Università  di Calcutta e autore di un recente libro dal programmatico titolo Ripensare lo sviluppo capitalistico (La Casa Usher). Il punto di partenza è sottrarre la critica dello sviluppo del capitalismo da una doppia ipoteca che l’ha accompagnata nel corso del Novecento: lo «sviluppismo» e il suo doppio speculare, la nostalgia romantica di una supposta origine pre-capitalistica. Ripensare lo sviluppo capitalistico, allora, significa identificare un campo analitico incentrato non su una supposta oggettività  economica, bensì sul conflitto che oppone il capitale e i soggetti che puntano a una critica e un superamento di quel rapporto sociale id produzione, temi su cui si è svolto la scorsa settimana un partecipato convegno all’Università  di Bologna, un’occasione in cui si sono approfonditi con Sanyal i punti principali della sua analisi del «capitalismo postcoloniale».
Partiamo proprio da questa categoria: possiamo estenderla oltre i confini di quello che una volta veniva chiamato Terzo Mondo per farne un paradigma delle trasformazioni del capitalismo contemporaneo su scala globale?
Negli anni Sessanta e Settanta la teoria marxista ha interpretato la mancata trasformazione capitalistica del Terzo Mondo secondo il modello occidentale come una transizione incompleta, fallita. Io parto dalla critica di questa prospettiva: nel mondo postcoloniale non c’è un residuo del passato, un qualcosa di primordiale che la modernità  non è stata in grado di trasformare. Il punto è invece che anche nel suo pieno sviluppo il capitalismo è incapace di sussumere l’intera popolazione nella sua sfera produttiva: non si tratta di feudalismo o pre-capitale, ma al contrario di un prodotto del capitale e dell’accumulazione originaria. Se negli studi postcoloniali l’attenzione è incentrata su come la modernità  negozia con la tradizione, in realtà  ci troviamo di fronte non a un’origine bensì a un prodotto della modernità  stessa che è di per sé necessariamente incompleta, poiché è costituita dalla distruzione della tradizione e la contemporanea impossibilità  di ricondurre tutto al proprio interno. Se nel XIX secolo il capitale è stato espansivo, assorbendo paesi e regioni nel suo spazio, oggi assistiamo a un capitale implosivo, che tende a creare spazi di esclusione. Chiamo tutto ciò formazione capitalistica postcoloniale. Quella che per la tradizione marxista è la debolezza del capitale, costituisce al contrario la sua forza, la capacità  cioè di creare un’economia del bisogno che consenta la sopravvivenza del surplus di popolazione. Si pensi, ad esempio, ai migranti che fanno i venditori ambulanti: non possono trovare un lavoro e non hanno i documenti, sopravvivono allora dentro un’economia del bisogno.
In questo quadro, l’accumulazione originaria è identificata con l’appropriazione da parte del capitale delle risorse naturali e della terra. Ma c’è un altro aspetto: è l’accumulazione originaria sulla conoscenza. Si dice che gli esclusi siano privi delle competenze necessarie, ma in realtà  c’è un continuo deskilling nel processo capitalistico, cioè una costante devalorizzazione e obsolescenza del sapere. La logica è rovesciata: l’esclusione avviene non perché non hai le competenze, ma perché cambia continuamente la definizione dello skill. È questo il punto di partenza per pensare l’accumulazione originaria oggi: i suoi soggetti non sono lavoratori in senso classico, sono cioè donne e uomini spossessati senza essere proletarizzati. Hanno una potenza trasformatrice, ma si confrontano con il capitale dall’esterno e non dall’interno.
Le lotte per la sussistenza, l’educazione, la casa o la salute non rappresentano una questione di welfare state. Era così all’interno della logica del capitale e la sua espressione era la socialdemocrazia: le persone non potevano dipendere completamente dalla vendita della loro forza lavoro sul mercato, dunque lo Stato doveva garantire i diritti di base. Ora la governamentalità  va oltre, perché riguarda chi non è lavoratore in senso tradizionale, che è al di fuori del capitale: la sussistenza non è legata ai periodi di disoccupazione, all’occupabilità , ma alla legittimazione politica e ideologica del capitale stesso. Sarebbe sbagliato confondere la governamentalità  con la classica redistribuzione socialdemocratica, perché nel primo caso le risorse sono decapitalizzate e si definisce un’economia al di fuori del dominio del capitale, fatta di auto-impiego, di gruppi di donne che si autorganizzano per vendere i servizi. Da un lato, allora, le risorse vengono appropriate dal capitale, dall’altro in un movimento opposto una parte del surplus è decapitalizzato e reso utilizzabile per l’indipendenza di ciò che è fuori dalla sfera del capitale.
La distinzione tra il dentro e il fuori appare problematica. Se pensiamo ai migranti, ad esempio, vediamo un continuo sovrapporsi tra quelle che lei chiama economia dell’accumulazione ed economia del bisogno: la stessa persona può allo stesso tempo lavorare in fabbrica e nel settore informale, dentro una rete di relazioni transnazionale in cui i confini tra interno ed esterno tendono a sciogliersi…
L’economia dell’accumulazione dei paesi postcoloniali è parte del capitale globale: le multinazionali occidentali hanno libertà  di movimento, al pari delle grandi corporation indiane come Tata che comprano imprese in Europa, Australia o Stati Uniti. Anche l’economia del bisogno è diventata globale: la trasformazione del surplus è effettuata non solo dai governi nazionali, ma dalle Ong o dalle Nazioni Unite. È vero, c’è sovrapposizione. Spesso l’economia dell’accumulazione si avvantaggia dell’economia del bisogno, ad esempio nell’outsourcing: molte delle merci dei grandi brand globali sono fatte in Etiopia o in Bangladesh, mentre le grandi corporation possiedono design, logo e supervisione dell’intero processo. Ma c’è un altro lato della questione: l’economia del bisogno è una contraddizione del capitale, che necessita di questo fuori. Una parte delle risorse devono essere usate per ricreare continuamente l’economia del bisogno. È un processo continuo di distruzione e creazione, di espansione predatoria e di riproduzione politica e ideologica del capitale.
L’attualità  dell’accumulazione originaria ci parla anche di una trasformazione del lavoro e dei mezzi di produzione da cui i lavoratori vengono separati. Prendiamo l’esempio della Rete, in cui lo spossessamento dei saperi è la forma specifica dello sfruttamento. O si pensi alla precarietà : qui non vi è divisione tra economia del bisogno ed economia dell’accumulazione, ma piuttosto la loro continua sovrapposizione. Potremmo addirittura dire che quella che lei chiama economia del bisogno diventa risorsa centrale dell’accumulazione, ovvero che l’accumulazione originaria è oggi la cifra dell’accumulazione in generale…
Talvolta economia dell’accumulazione ed economia del bisogno permettono una all’altra di esistere. In questo caso, si può parlare à  la Althusser di surdeterminazione. L’economia del bisogno non è esterna, ma è un altro interno, nasce dalla logica del capitale. Nel passaggio dalla sussunzione formale alla sussunzione reale è per il capitale più facile controllare i lavoratori concentrati, ma l’altra faccia della medaglia è che i lavoratori formano i sindacati. Oggi possiamo dire che l’economia del bisogno serve all’economia dell’accumulazione, come nel caso dell’outsourcing, ma al contempo costituisce la sua contraddizione. Nelle scienze sociali ci sono due visioni: una legge l’economia del bisogno completamente sotto il controllo dell’economia dell’accumulazione, un’altra vede la prima costantemente distrutta dalla seconda. Entrambe sono vere, ma la questione è combinarle insieme perché il capitale è sempre contraddizione.
In questa direzione lei propone una distinzione tra capitale e capitalismo, corrispondenti grosso modo all’economia e alla società . Non c’è il rischio di non vedere il capitale come rapporto sociale, proponendo una visione economicista dei rapporti di produzione e identificando invece il capitalismo con l’egemonia e la legittimazione, ovvero con lo Stato?
Per Antonio Gramsci la classe dominante deve egemonizzare tutte le sfere, dalla società  civile allo Stato. Il capitale non è dominante nel senso che tutto è a sua immagine e somiglianza, secondo un’idea monista; è invece un’egemonia particolare, ma un particolare dominante. Anche le differenze possono essere una forma di egemonia. Nella sua autodescrizione, infatti, il capitale si rappresenta come eterogeneo, ed è egemonico nella misura in cui controlla lo spettro delle differenze. Per una politica anticapitalistica l’economia del bisogno deve diventare soggettività  autonoma. Anch’essa è eterogenea, ci sono differenti sistemi di produzione, c’è quindi necessità  di una base comune, che però non è più il lavoro contro il capitale, ma la vita contro il capitale. Vita e lavoro non sono più separati, è ciò che Toni Negri chiama produzione biopolitica.
La vita stessa tende a essere messa al lavoro…
Esatto. Si prenda la produzione manifatturiera dei vestiti, fatta soprattutto dalle donne in casa, che al contempo puliscono e guardano i figli. È estremamente difficile separare vita e lavoro. La soggettività  e le lotte contro gli espropri riguardano la vita.
Il nodo politico, dunque, è l’autonomia dell’intera e eterogenea composizione del lavoro vivo, il comune prodotto dalle lotte…
Questo è un punto cruciale. Nel circuito dell’accumulazione il lavoro necessario è soggiogato al controllo del capitale e alla produzione del plusvalore. Nell’economia del bisogno si producono merci per soddisfare i bisogni. Sulla base comune dell’economia del bisogno ci sono anche le lotte della classe operaia, come è avvenuto a Seattle. La questione è la liberazione del lavoro necessario e la sua combinazione con l’economia del bisogno. I movimenti dell’ultimo decennio dimostrano che la lotta è quella della vita contro il capitale. Dovremmo tornare qui al giovane Marx.
Nel suo libro lei evoca la polemica tra Lenin e i populisti russi, interpretandola come un dibattito tra una prospettiva teleologica e una antistoricistica. Come è possibile pensare alla transizione in termini nonstoricistici, cioè in termini di produzione di soggettività  antagonista?
Mi riferisco a quel dibattito in una prospettiva molto locale e delimitata. Nel dibattito tra Nehru e Gandhi, il primo era per lo sviluppo industriale come fonte di progresso, mentre per il secondo l’industrializzazione non significava automaticamente proletarizzazione dei contadini. Lenin argomentava contro i narodniki che il capitalismo era un modo di produzione più avanzato, non vedeva l’incapacità  del capitale di proletarizzare l’intera popolazione. Nella città  di Singur, nel Bengala, da tempo che un forte scontro attorno al progetto di costruire un complesso industriale della Tata. il Partito Comunista invoca Lenin per sostenere lo sviluppo industriale, mentre i partiti di opposizione e le organizzazioni della società  civile sostengono la preservazione del modo di vita contadino, riproponendo le argomentazioni dei narodniki.
Diversamente dalla tradizione leninista e da Nehru, il problema di Lenin non è la fiducia nel progresso o nella nazione, ma l’organizzazione della soggettività  eterogenea del lavoro vivo. Prima ancora che dallo sviluppo del capitalismo, la comunità  agricola è stata messa in crisi dalla fuga di milioni di lavoratori…
Questo vale anche per il presente, a Singur e ovunque: il romanticismo populista è da questo punto di vista completamente sbagliato. I contadini fuggono dalla vita rurale verso l’Europa, altri però sono forzati a tornare, rimangono nel limbo. I contadini non vogliono rimanere contadini, e al contempo non vengono necessariamente proletarizzati.


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