by Editore | 21 Giugno 2011 6:35
Prima ancora d’essere affidato alla norma giuridica, il tema del rifugio attraversa le culture, riguarda l’ineludibile confronto con l’altro, trova eco nelle religioni, che ne catturano le virtù. Asilo, per i romani, era un Dio. E leggiamo il Levitico: «lo straniero che vive tra voi lo tratterete come chi è nato tra voi». Un’accoglienza senza condizioni, che si fa offerta generosa quando tra gli attributi della Vergine compare il «refugium peccatorum». Si giunge così alla radice della condizione umana, alla libertà e alla dignità della persona.
Questo ha portato ad uno statuto dei luoghi di culto come luogo di rifugio, di cui abbiamo avuto una rinnovata testimonianza dai sans-papiers francesi, “rifugiati” appunto nella chiesa di Saint Eustache. Entrando in quei luoghi si era al riparo della persecuzione, si diventava immuni. Ed era così anche per luoghi dell’organizzazione civile, come accadeva, per consuetudine non scritta, alle università , che ora hanno perduto il privilegio d’essere spazi nei quali non penetrava la polizia.
Ricordo questi fatti non per un vano esercizio di memoria, ma perché proprio da questa consapevolezza profonda d’una condizione umana hanno preso le mosse documenti come la Convenzione sullo statuto dei rifugiati, di cui oggi celebriamo i sessant’anni. E la medesima consapevolezza deve guidarci oggi nell’interpretare e applicare quel testo, senza chiuderci in grettezze, senza organizzare meschine difese che impediscono di dare allo statuto del rifugiato il suo significato vero – quello di restituire alla persona la sua pienezza in libertà e dignità . Invocare la dignità non è formula retorica. L’Europa ormai dev’essere sempre guidata da quel che è scritto nel primo articolo della sua Carta dei diritti fondamentali: «la dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata». Rispetto e tutela che gli Stati europei non devono soltanto ai loro cittadini, ma ad ogni persona, com’è detto esplicitamente nel Preambolo della Carta, dove si parla di «responsabilità e doveri nei confronti degli altri come pure della comunità umana e delle generazioni future». No, dunque, ad una avara Fortezza Europa.
Poiché i sessant’anni della Convenzione s’intrecciano con i 150 della nostra unità nazionale, conviene riandare per un momento al 1865, al tempo in cui si scrisse l’articolo 3 del codice civile, così concepito: «Lo straniero è ammesso a godere dei diritti civili riconosciuti al cittadino». Una affermazione rivoluzionaria per quel tempo, perché scioglieva il godimento dei diritti dalla condizione della reciprocità , proprio come fa oggi, sia pure parzialmente, l’articolo 7 della Convenzione sui rifugiati. Quel principio sembrava «destinato a fare in breve il giro del mondo, poiché le tendenze dei tempi nuovi altamente invocano la solidarietà dell’umana famiglia», come ebbe a dire il Guardasigilli del tempo, Giuseppe Pisanelli. Quella previsione lungimirante fu poi cancellata dal fascismo, ma il suo spirito dovrebbe tornare ad illuminarci oggi, insieme alla memoria dei tanti italiani che, antifascisti e ebrei, poterono continuare ad operare grazie al riconoscimento dell’asilo politico. E con essi i molti messi al riparo dai nazisti grazie al rifugio in conventi e altri luoghi sacri.
Questi ricordi, tuttavia, ci parlano di un tempo in cui il diritto d’asilo era quasi tutto politico, riconosciuto soprattutto ad una élite intellettuale. Ma sappiamo che non è più così, che siamo di fronte ad un fenomeno di massa, che dilata le ragioni del rifugio al di là dell’elenco contenuto nella convenzione, che parla di «giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche». Ma quell’elenco, nei fatti, si è allungato: lo mostra l’articolo 21 della Carta europea dei diritti; lo confermano le decisioni con le quali è stato riconosciuto l’asilo politico a donne che, ritornate in patria, avrebbero corso il rischio di mutilazioni sessuali; lo dice un documento come la Dichiarazione di Cartagena, dove la condizione di rifugiato è riferita a chi fugge dal proprio paese perché violenze generalizzate minacciano vita, sicurezza, libertà ; perché si può essere vittime di aggressioni straniere, conflitti interni, massicce violazioni dei diritti umani, gravi turbative dell’ordine pubblico.
Davanti a noi, in quest’anniversario non celebrativo, sono due questioni ineludibili, e connesse. Bisogna, anzitutto, allargare la nozione di rifugiato. Lo spirito della Convenzione certamente lo consente, e questo è passaggio indispensabile perché la Convenzione stessa non venga confinata in un ruolo parziale, mantenga la sua essenziale funzione di garanzia universale, comprenda le drammatiche realtà di un mondo attraversato da conflitti, dai quali fuggono gli ecoprofughi (ai quali ha dedicato un bel libro Valerio Calzolaio), la cui condizione ha origine pure nel rapporto distorto tra il mondo delle persone e il mondo dei beni, non più ispirato al bene comune, ma consegnato solo alla logica di mercato. Bisogna poi rispettare rigorosamente le garanzie previste dalla Convenzione, ignorando le quali si cade nell’indifferenza per le concrete condizioni umane e nella violenza inammissibile dei respingimenti, la cui illegittimità è chiara e diventa violazione clamorosa delle regole quando avviene in acque internazionali, visto che l’applicazione della Convenzione non conosce limitazioni geografiche. Altrimenti, come ci ha ricordato il Presidente della Repubblica, si supera una «soglia che non può e non deve essere varcata».
A questo si aggiunge il dovere degli Stati di non fermarsi al riconoscimento formale dello statuto di rifugiato, disinteressandosi poi della sua situazione materiale. Non solo asilo, si è detto. Questo porta anche alla nascita di nuovi diritti, come l’anonimato su Internet, condizione necessaria perché il rifugiato possa continuare a manifestare liberamente le sue opinioni, senza esporre a rappresaglie sé o altri. Così, la condizione dei rifugiati, una volta di più, ci parla della condizione di tutti noi, della impossibilità di separare il nostro dal loro destino
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