Le due Leghe indecise a tutto
I leader. Chiamati, a uno a uno, per nome e cognome. E “per carica”. Ministri, viceministri, presidenti di Regione e dei gruppi parlamentari. Da ultimo, il Primo. Il Capo. Umberto Bossi. L’icona che tiene unite le due Leghe. Movimento e istituzione insieme, per usare le categorie weberiane rilette da Francesco Alberoni. Il “movimento rivoluzionario” indipendentista e il “partito normale”, istituzionalizzato. Sempre più difficili da riassumere. Soprattutto oggi. Ne ha risentito anche la comunicazione del Capo. Normalmente semplice, fino all’eccesso. Ma chiara e netta. Stavolta meno del solito. Ha espresso i contenuti cauti, della Lega di governo con il linguaggio esplicito della Lega di lotta. Alla congiunzione fra le due Leghe, l’idea del Sindacato del Nord. Che tutela gli interessi “padani”.
Da ciò l’attenzione, ampia e appassionata, dedicata da Bossi agli allevatori e alla loro lotta. Ma anche ai contadini. Testimoni della “terra”, il mito che ispira la Lega e la sua fede padana. Da ciò anche la minaccia, più che l’invito, al governo e a “Giulio” (Tremonti). Affinché abbassino le tasse che colpiscono soprattutto i “ceti produttivi” del popolo padano. Artigiani, lavoratori autonomi e piccoli imprenditori. Anche la polemica di Bossi, rilanciata da Maroni, contro l’intervento armato in Libia, viene tradotta in questa chiave. Più delle ragioni umanitarie preoccupano le ragioni della sicurezza. Del Nord. Minacciato dall’invasione dei poveri cristi in fuga dai bombardamenti.
La Lega di lotta e di governo, tuttavia, faticano a stare insieme, a Pontida. Qualche volta stridono. Ai militanti di Pontida che gridavano “Secessione! Secessione!”, Bossi ha risposto promettendo – più modestamente – di decentrare alcuni ministeri nel Nord. Più precisamente: a Monza. I dicasteri guidati da lui stesso e Calderoli, intanto. Invitando Maroni e lo stesso Tremonti ad aggregarsi. D’altronde, ha aggiunto, il ministero dell’Economia deve stare dove si produce. Non a Roma. Spostare i ministeri a Monza serve, infatti, a marcare il distacco dallo Stato Centrale. E a valorizzare, per contro, la Capitale del Nord. Che gravita intorno a Milano. D’altronde, dopo le elezioni amministrative, la Padania ha perduto la capitale. E la Lega è stata spinta ulteriormente in provincia.
Anche gli avvertimenti a Berlusconi – fischiato dai militanti ogni volta che ne veniva pronunciato il nome – rispondono al sentimento della “Lega di opposizione”. Berlusconi – ha detto e ripetuto Bossi – non sarà necessariamente il candidato premier. D’altronde, i militanti, esibendo striscioni da stadio, inneggiavano a “Maroni premier”.
Il messaggio è chiaro. Berlusconi, verrà sostenuto dalla Lega solo se rispetterà gli interessi e le rivendicazioni del Sindacato del Nord. Pensieri, parole – e parolacce – a cui, tuttavia, difficilmente seguiranno i fatti. Perché queste rivendicazioni del Sindacato del Nord, per quanto “moderate”, appaiono poco praticabili.
Proporre di decentrare alcuni ministeri a Nord è ben diverso che minacciare la secessione. Ma si tratta, comunque, di un progetto difficile da realizzare. Significherebbe svuotare l’idea – e la realtà – di “Roma Capitale”. Divenuta tale con un decreto votato dalla stessa Lega. Lo stesso discorso vale per la riforma fiscale e le altre iniziative volte ad alleggerire – o almeno controllare – il debito pubblico. Difficile immaginare che possano avvenire a spese, prevalentemente, dei ceti sociali e delle aree del Mezzogiorno. Roma Capitale e la Regione Lazio sono governate dal Pdl. Il Centrosud garantisce il bacino elettorale maggiore del Pdl. La Lega dovrebbe, a questo fine, rompere con Berlusconi e il suo partito, come nella seconda metà degli anni Novanta. Dovrebbe ascoltare il popolo di Pontida che grida: “Secessione! Secessione!”. Impensabile. Perché incombe ancora la sindrome del ’99. Quando la Lega secessionista, da sola, si ridusse a poco più del 3%. Abbandonata dai “forzaleghisti”, come li definì Edmondo Berselli. Gli elettori che votano ora Lega ora Forza Italia (e ora Pdl) su basi tattiche.
Per questo Bossi lancia parole di lotta, ma poi usa argomenti di governo. Sorretti da ragioni ragionevoli. Guardate che non basta schiacciare un bottone per cambiare, ripete il Capo. Guardate che non possiamo fare cadere il governo e non possiamo neppure andare al voto. Oggi. Non conviene. Il «ciclo storico (ha detto proprio così) è cambiato. Ci è sfavorevole. Vincerebbe la Sinistra».
Ma poi, aggiungiamo noi, non sarebbe facile neppure a Bossi convincere il suo partito ad abbandonare il governo – e il sottogoverno. Per ragioni interne. Costringere alle dimissioni i suoi ministri e i suoi viceministri. E tutti i suoi uomini inseriti nelle istituzioni, nei centri di potere economico, finanziario, pubblico e radiotelevisivo. Sarebbe difficile perfino a lui, il Capo. Anche proclamare la secessione. Da Roma. Non solo perché la stragrande maggioranza degli elettori del Nord, compresi i suoi, non la accetterebbe. Ma perché la rottura della maggioranza a livello nazionale avrebbe rilevanti conseguenze locali. Visto che la Lega, nel Nord, governa in due Regioni, molte province e centinaia di comuni. Insieme al Pdl.
Difficile, infine, pensare che una Lega di governo, cresciuta tanto e tanto in fretta nel Nord, non sia attraversata da divisioni interne. Come avviene in tutti i partiti “normali”. Che la proposta dei ministeri a Monza non abbia suscitato disagio nel Nordest e soprattutto in Veneto. Che le ovazioni a “Maroni premier” non abbiano messo di cattivo umore Calderoli. E magari anche qualcun altro.
Per questo le parole di Bossi e il rito di Pontida non hanno offerto indicazioni chiare sul futuro. La Lega di opposizione vorrebbe correre da sola. Contro tutti. La Lega di governo non ci pensa proprio. Il Sindacato del Nord pone alla maggioranza condizioni che il Pdl non può accettare. Nessuno è abbastanza forte per imporsi. Né per rompere. Così il governo – e il Paese – sono destinati a navigare a vista. Finché ci riusciranno.
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