by Editore | 23 Giugno 2011 6:53
L’umiltà del male e la superbia del bene sono due polarità attorno alle quali si svolge il racconto della vita degli individui e delle società . Così Franco Cassano imposta la sua ricerca nell’ultimo suo libro che ha suscitato un ampio dibattito dovuto anche all’attualità del tema. L’umiltà del male (Laterza) è stato già recensito sul nostro giornale, al quale l’autore ha anche rilasciato un’intervista il 2 giugno per fugare alcune interpretazioni e strumentalizzazioni politiche del suo testo, peraltro chiarissimo e affascinante.
Il fascino viene dal tema e dalla scrittura di Cassano che, pur affermando con forza il proprio punto di vista, mantiene aperta la soluzione responsabilizzando il lettore sui dilemmi tra l’essere e il dover essere, l’esistente e il futuribile, gli istinti individuali e la briglia che ad essi pongono le istituzioni. Dall’iniziale polarità tra il bene e il male ne scaturiscono dunque molte altre che sono state il tessuto della modernità .
A me il libro di Cassano è molto piaciuto ma c’è un punto che mi interessa di porre e spiega la ragione di questo mio intervento; un punto che il dibattito e le recensioni non hanno toccato ed è l’inesistenza della polarità sulla quale l’opera di Cassano è costruita. Il bene e il male. Sono due concetti assoluti o relativi? Quando e perché nascono nella mente?
Cassano sfiora questi interrogativi senza però approfondirne l’analisi. Accenna all’idea di salvezza e di redenzione. Non a caso al centro della sua ricerca c’è la “Leggenda del Grande Inquisitore” e il lungo monologo del vecchio cardinale spagnolo con Cristo, che è ricomparso a Siviglia dove erano stati bruciati sul rogo centinaia di eretici condannati dall’Inquisizione.
Quelle mirabili pagine tratte dai Fratelli Karamazov di Dostoevskij sono il fondamento del libro di Cassano; il bene indicato da Cristo nella sua predicazione e il male personificato dalla figura del vecchio cardinale di Siviglia, hanno come punto di riferimento il pane celeste promesso dal Nazareno e il pane terrestre dispensato dall’Inquisitore. La posta dello scontro è la salvezza. Ma se il concetto della salvezza fosse cancellato dalla mente degli uomini, su che cosa reggerebbero i concetti di bene, di male, di peccato?
Una risposta, interamente laica, potrebbe riferire quei concetti alla società : è bene ciò che aiuta la società a durare e crescere ed è male ciò che minaccia di distruggerla. Per evitare il proprio dissolvimento la società crea una rete di istituzioni, di norme e di sanzioni contro chi le viola. Scompare il peccato ma è sostituito dal reato che è tutt’altra cosa. Salvezza e redenzione scompaiono anch’esse da questa polarità puramente terrena.
In questo quadro laico i concetti di bene e di male subiscono una radicale trasformazione, al posto della salvezza si installa il concetto di felicità . È un bene perseguire una felicità puramente individuale e immediata, mirata alla soddisfazione degli istinti, oppure una felicità di lunga durata, valida per i propri figli e nipoti e connessa alla solidità delle istituzioni?
Si pone a questo punto la domanda di quali siano le istituzioni più idonee a costruire e guidare una società giusta e partecipata. Entra in scena il concetto di democrazia e le varie tipologie che lo distinguono. Siamo, come si vede, in pieno Aristotele.
Cassano trasferisce la sua ricerca dal piano della salvezza a quello della felicità e cerca di mantenere l’analogia con la tesi del Grande Inquisitore. Ma a me sembra che l’analogia poggi su un terreno estremamente friabile.
* * *
Molti anni fa scrissi un libro dal titolo L’autunno della Repubblica. Era l’anno 1969, il Sessantotto era ancora un movimento studentesco in pieno sviluppo, ma già si poteva intuire il riflusso che ne sarebbe seguito e le devianze che ne avrebbero deformato la natura e gli obiettivi.
Avevo guardato con sincero favore alle conquiste di quel movimento, specialmente a quella dell’emancipazione e della liberazione delle donne che del sessantottismo fu uno dei filoni, forse il più valido e pieno di futuro.
Nelle ultime pagine di quel libro descrissi tre ipotesi che avrebbero potuto avverarsi paragonando la rivoluzione sessantottina ad un fiume in piena esondato dagli argini che lo contenevano.
La prima ipotesi era che il fiume rientrasse nei propri argini e l’esondazione non avesse altro esito che quello di fecondare il terreno invaso dalle acque. La seconda, che l’esondazione scavasse nuovi argini e il fiume scorresse in un nuovo letto verso una nuova foce. La terza ipotesi: che il fiume si impantanasse diventando una palude piena di miasmi e malarie.
In realtà il risultato del sessantottismo non è stato univoco, tutte e tre quelle ipotesi si sono parzialmente verificate, una parte del fiume è tornata a scorrere nei vecchi argini, un’altra parte si è scavata argini nuovi (non è stato un vero fiume ma un torrentello con andamenti stagionali), un’altra parte infine – la maggiore – si è trasformata in palude.
Ricordo queste vicende perché dimostrano quanto sia importante per ogni generazione, soprattutto per quelle che sono portatrici di emozioni e motivazioni rivoluzionarie, avere ben chiaro il senso del limite. I limiti sono gli argini di quel fiume che è la vita. Dove non c’è il senso del limite il fiume (la vita) cessa di scorrere, si arresta il divenire che ha bisogno di passato e di futuro, non ci sono i “dodicimila santi” previsti e biasimati dal Grande Inquisitore, ma solo un eterno presente che coincide con un puzzolente pantano.
* * *
Il bene e il male sono concetti elaborati dalla nostra mente per dare un fondamento etico ai nostri comportamenti e un senso alla nostra vita. Gli altri esseri viventi – vegetali e animali – ignorano che cosa sia l’etica, non possiedono un’identità consapevole, non hanno capacità di pensare se stessi e il mondo.
Noi l’abbiamo quella capacità e proprio per questo siamo una specie drammaticamente infelice. Lo siamo diventati nel momento stesso in cui l’Arcangelo Gabriele, eseguendo gli ordini del Creatore, ci scacciò dal Paradiso terrestre e ci precipitò nella storia condannandoci a lavorare, a soffrire e a scontare il peccato d’aver mangiato i frutti dell’albero della conoscenza. E a domandarci se c’è un senso in questo racconto.
Il senso c’è se il nostro pensiero si rassicura sull’esistenza di un destino. Cassano cita in proposito Cesare Pavese: «La religione consiste nel credere che tutto quello che ci accade è straordinariamente importante». Per chi ricorda che la vita ha fatto il suo ingresso nel mondo sotto la forma di un essere monocellulare che si riproduceva per partenogenesi, l’idea che tutto quello che ci accade sia estremamente importante è un semplice esorcismo creato da noi stessi per combattere l’idea della morte.
La realtà è che non esiste alcun senso ultimo della vita; siamo noi che ce lo inventiamo per rassicurarci. Il senso viaggia su segmenti di vita, opere da fare, progetti da costruire, desideri da soddisfare. Ed esorcismi per scappare dalla morte incombente. Non esistono i “dodicimila santi” che incarnano il bene e magari lo vivono con solitaria superbia e non esiste il male come divina e diabolica controfigura del bene. Esistono invece l’amore verso se stessi e l’amore verso gli altri. Due istinti che convivono dialetticamente, insiti nella nostra natura e soltanto nella nostra. Due istinti la cui agitata e straordinariamente fertile convivenza tesse il racconto della vita individuale e la storia delle società nella quale la nostra socievolezza antropologica ci induce a vivere. Ciò che ci accade dipende in gran parte dalla modulazione di quei due amori e per il resto dal caso.
Farò anch’io una citazione a proposito del destino e del caso e la traggo da Momenti fatali di Stefan Zweig: «Sul mondo devono sempre scorrere milioni di ore amorfe prima che appaia un’ora veramente storica, un’ora stellare dell’umanità ».
Quando uno di quei due amori di cui ho detto soverchia l’altro ed assume la padronanza del nostro “es” superando la soglia della fisiologia, lì nasce quello che Freud chiamò «il disagio nella civiltà ».
Franco Cassano conclude il suo libro con queste righe: «Il dover essere e l’essere rimangono regni eterogenei e nessuno di essi può essere ridotto all’altro».
Non direi così. Il dover essere (io lo chiamo l’amore per gli altri) e l’essere (l’amore per se stessi) convivono e non sono eterogenei perché sgorgano dal comune istinto di sopravvivenza. Sono entrambi necessari. Il primo mira alla sopravvivenza della specie, il secondo a quella dell’individuo. Questa è la condizione umana che coincide con la vita fino a quando anche la nostra specie scomparirà come tutte le cose che, essendo nate, è legge che scompaiano e più non ritornino.
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2011/06/lauomo-tra-laamore-di-se-e-laamore-per-gli-altri/
Copyright ©2024 Diritti Globali unless otherwise noted.