L’architetto delle utopie
L’autocostruzione. L’uso di materiali poveri. La comunità . Eccoli i criteri guida di Yona Friedman, architetto sui generis e, oltre che architetto, sociologo, studioso di matematica e di fisica, esperto di comunicazione, che nei giorni scorsi ha compiuto ottantott’anni e di cui esce ora in Italia un nuovo libro: s’intitola L’ordine complicato. Come costruire un’immagine (Quodlibet, pagg. 171, euro 16, traduzione di Paolo Tramannoni, postfazione di Manuel Orazi). Friedman è un pensatore originale, libertario, utopista e visionario: dal dopoguerra riflette su chi debba stabilire come si abita un luogo ed essendo convinto che la decisione spetti solo parzialmente agli architetti si interroga su come i residenti possano farsi carico di essa.
Friedman è nato in Ungheria, appunto, nel 1923. Ha subìto il nazismo, la persecuzione antiebraica ed ha militato nella resistenza, cambiando il suo nome da Janos Antal nel biblico Yona. Ha costruito poco: case in Israele e il Museo delle Tecnologie Possibili di Madras, in India, usando il bambù come materiale prevalente. Ha scritto libri (il più famoso: Utopie realizzabili, Quodlibet 2003) e immaginato città del futuro. Ha partecipato al concorso per il Beaubourg con una grande struttura alla quale mancava la facciata, che, ovviamente, lui prevedeva fosse scelta dagli utenti (era il 1971, quel concorso lo vinsero Renzo Piano e Richard Rogers). Ora Friedman vive a Parigi, dopo aver insegnato negli Stati Uniti, in una casa affollata di oggetti, di pupazzi e di strane creazioni. Sembrano accumulate disordinatamente. Ma lui avverte, ammiccando al suo libro: «Il disordine non esiste, esiste solo un ordine complicato». Da Parigi si muove a fatica, comunica per telefono e per fax, ed è così che siamo entrati in contatto, niente posta elettronica. In questi giorni si è anche aperta a Léon, in Spagna, una mostra a lui dedicata, si intitola «Métropole Europa» (nel catalogo, fra gli altri, saggi di Kenneth Frampton e Hans Ulrich Obrist).
L’ordine complicato è una raccolta di pensieri e frammenti che si alternano a piccoli disegni e ad allegre vignette. Come racconta Orazi, le indagini sull’ordine complicato Friedman le inizia ancora nell’Ungheria filonazista dove, nonostante la repressione del regime, può tenere una conferenza il premio Nobel per la Fisica Werner Heisenberg. L’ordine in cui si dispongono le cose, dice Friedman, non è dato dalle cose in sé, ma dal modo in cui noi le organizziamo. Per farsi capire meglio, prova con un esempio: «L’ordine dei numeri è un ordine naturale, l’ordine alfabetico è un ordine complicato». L’alfabeto, infatti, è un artificio umano, un’immagine costruita. Allo stesso modo la città non è il luogo nel quale si dispongono edifici, ma il luogo in cui gli edifici sono abitati da esseri umani. Ed è di questi che l’architettura, insiste Friedman, deve occuparsi: «L’ordine complicato indica un ordine le cui regole sono sconosciute e non possono essere espresse attraverso formule matematiche. L’architettura è uno speciale caso di ordine complicato».
Due anni fa Friedman ha pubblicato in Italia L’architettura di sopravvivenza. Una filosofia della povertà (Bollati Boringhieri). «La povertà », dice, «è la condizione in cui vive la maggior parte della popolazione planetaria, nonostante le sofisticate tecnologie». Ed è indispensabile «che l’architettura riscopra le tecniche compatibili con un modo di vita più sobrio». Quando ha imparato l’architettura di sopravvivenza? «Durante la seconda guerra mondiale e subito dopo. Ho avuto l’esperienza della miseria, delle coabitazioni forzate e ho capito l’importanza dell’aiuto reciproco».
Un’altra vicenda decisiva per il formarsi del suo pensiero si svolge in Israele, ad Haifa, dopo la guerra. Qui mette a punto il “manifesto dell’architettura mobile”. «Era il modo per rispondere alla grande immigrazione di quegli anni. Tanta gente proveniva da paesi e culture diverse e aveva bisogno di abitare in luoghi che potessero essere cambiati a seconda delle esigenze. Questo era il principio dell’architettura mobile: considerare le pareti di casa altrettanto provvisorie quanto un oggetto d’arredo». Ecco l’autocostruzione, la piccola comunità , quella che poi definirà come “gruppo critico”, un gruppo con un numero massimo di persone tale da rendere possibile una comunicazione di tutti con tutti. Altro che villaggio globale.
«L’architettura deve ascoltare gli abitanti di un luogo. E dato che essi non possono spiegare verbalmente o con disegni ciò che vogliono, in molti casi l’unica soluzione è proprio l’autocostruzione». Nelle parole di Friedman suona l’eco di espressioni come partecipazione e democrazia dal basso. E qualche ricordo: «Sono stato amico di Giancarlo De Carlo. In passato gli architetti erano persone colte, interessate a più discipline. Oggi l’architetto è troppo stretto nel suo professionismo, coltiva l’informatica, il business e il marketing. A me pare che manchi l’immaginazione». Quell’immaginazione che lo portò a disegnare una “città spaziale”, una grande struttura sollevata da terra e sovrapposta alle attuali città , organizzata secondo il principio della flessibilità e dell’autocostruzione. «O, addirittura, dell’autopianificazione», aggiunge Friedman. «La città spaziale rende possibile cambiare il disegno urbano senza la necessità di demolire il preesistente».
Ma lei è d’accordo con chi sostiene che la città sia al capolinea di un ciclo storico? «Credo che si stia assistendo alla fine di un vecchio concetto di città . La città di oggi risponde all’idea di un network di nuclei tenuti insieme da una rete di traffico veloce». Si sente in qualche modo parte del sistema di archistar? «Le stelle sono entità che vanno e vengono, senza lasciare tracce. A me interessano le idee».
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