by Editore | 14 Giugno 2011 7:00
Presentato in una tribuna per sua natura e vocazione attenta alla novità degli stili come il Torino Film Festival, Il cacciatore (The hunter) di Rafi Pitts si discosta abbastanza da ciò che nel corso dell’ultimo ventennio siamo abituati ad aspettarci dal cinema iraniano soprattutto attraverso l’autorità acquisita dai suoi registi più famosi come Kiarostami, il caposcuola dell’onda che così prepotentemente si affacciò ai grandi festival nella seconda metà degli anni 80, o Makhmalbaf, in ordine d’età il secondo nome più celebre. Pitts appartiene a una nuova generazione (1967) e nel suo paese è vissuto soltanto fino alla fine dell’infanzia, lasciandolo all’indomani della rivoluzione islamica dapprima per Londra e poi per la Francia.
Forse con un eccesso di complicazioni un po’ oscure e digressioni un po’ gratuite, il film mantiene comunque saldo il suo interesse nel mettere in scena, fondamentalmente sia pur in forma molto indiretta ed implicita, un clima di incertezza e paura, un labirinto si sfiducia e ostilità che investe in pieno la società iraniana odierna, bloccata nelle sue aspirazioni, paralizzata nelle sue grandi potenzialità . Questo il film lo fa mettendo al centro un personaggio, un uomo che all’inizio del film è appena uscito di prigione – e non sappiamo perché ci è finito, a noi immaginare che forse è stato per ragioni politiche, che forse è stata la conseguenza della sua partecipazione alle proteste civili – ma carichi di significati e allusioni simboliche (fin troppo, di nuovo, ma anche, di nuovo, con una loro motivazione e una loro compattezza) che coinvolgono soprattutto il paesaggio. Quello metropolitano di una Teheran plumbea e ipercementificata, reticolo di autostrade sulle quali corre congestionato il traffico permanente di una folla di solitudini sbattute tra quartieri dormitorio, martellanti messaggi radiofonici, posti di lavoro che sono nidi di insoddisfazione e inefficienza, burocrazia ostile. E quello extraurbano che però, ripreso nella stagione invernale, non si distingue troppo nell’assenza di colori e di vita della città .
Il protagonista infatti quando può se ne va per i boschi, ha la passione della caccia. Dopo la scarcerazione ha trovato un lavoretto di guardiano notturno e dunque per via dei suoi orari capovolti fa fatica a dedicarsi, come fortemente desidera, alla giovane moglie e alla figlioletta. In questo grigio scorrere di giorni (come abbiamo visto già costellato di segnali e avvisi a proposito di una situazione di infelicità e costrizione) all’improvviso accade qualcosa di molto grave in seguito a una manifestazione di piazza dove la moglie si è recata e dove si è sparato. A questo punto Alì, così si chiama il protagonista, non senza aver tentato la strada della paziente attesa di informazioni sull’accaduto da parte delle autorità , trasforma il suo pacifico fucile da cacciatore nello strumento di una cieca ribellione.
Ma di nuovo il film, nel suo ideale terzo atto, è destinato a subire un ulteriore scarto, un altro cortocircuito. Quando, braccato da due poliziotti per i boschi e arrestato, Alì vede esplodere un conflitto tra i suoi due carcerieri, uno deciso a fare di lui giustizia sommaria e l’altro pieno di dubbi e tentazioni di fuga dagli obblighi dell’uniforme che indossa. Altra testimonianza di una società percorsa da migliaia di incrinature.
Si diceva diverso rispetto all’idea standard che del cinema iraniano ci siamo andati facendo, l’idea di un cinema in presa diretta, di forte discendenza neorealista. Dotato comunque sempre di una sua forte originalità che spesso si esprime nella rituale iterazione di gesti e parole e nella ricercata lentezza di ritmo. Non che sia la prima volta che un film di Teheran ci comunica l’idea di una nazione e di un popolo ricchi, complessi, il cui valore e le cui potenzialità premono sotto una cappa di anacronistici impedimenti. Però qui si sente più forte la contaminazione con scuole e linguaggi diversi, frutto della frequentazione del regista con le cinematografie dell’occidente europeo. Ferma restando una spiccata personalità e una consapevolezza che magari richiederebbe solo di essere un po’ depurata di qualche vezzo un po’ troppo ermetico. Peraltro, se mai ci si dovesse appellare alla necessità di aggirare l’occhiuta censura, nel suo caso forse non è proprio necessario visto che risiede all’estero.
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