La rabbia di piazza Tahrir “I militari del Cairo hanno tradito la rivoluzione”

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IL CAIRO. «QUESTE manifestazioni che sfociano nella violenza, ma non si capisce da cosa nascano, non hanno il sostegno della gente», taglia corto Abdul Rahman Soby, un giovane ingegnere di 24 anni, mentre il disco incandescente del sole si abbassa tra i palazzi al di là  del Nilo. E le ombre della sera nascondono le ultime ferite di Piazza Tahrir. Adesso, nel tepore del tramonto, s’è riaperto il minimarket della rivoluzione: magliette, caricature, bandiere, coni gelato. Capannelli si formano e si sciolgono di continuo attorno ai soliti instancabili oratori. Due o tre tende sono state piantate sulla rotonda dove era stato appena rifatto il prato. Ma è difficile immaginare che da queste poche centinaia di persone, da questo tranquillo panorama cittadino ripartano il lampo e il tuono della rivoluzione.
Eppure, nella notte tra martedì e mercoledì, e fino alla tarda mattinata, qui c’è stata battaglia. Lo testimoniano le chiazze nere di bruciato lasciate dalle molotov sul selciato, il pavimento sconnesso dei marciapiedi da cui sono stati asportati i mattoni, le cancellate dei giardini divelte. La contabilità  degli scontri parla di oltre mille feriti, compresi le centinaia intossicati dai lacrimogeni, fra i quali una quarantina di agenti, nove arrestati ed oltre 40 fermati. E, come a mettere in guardia che una nuova esplosione potrà  ancora arrivare, ecco allineati su una delle traverse che sbocca sulla Piazza, una dozzina di ambulanze arancione. Di polizia, invece, ieri sera non c’era traccia.
Difficile dare un’identità  precisa ai dimostranti che hanno deciso di dare battaglia. «Provocatori che avevano pianificato e orchestrato per tempo gli incidenti allo scopo di diffondere il caos e destabilizzare il paese», come afferma il Consiglio Supremo delle Forse armate, il vero governo di fatto della transizione, nel suo Comunicato n.65? O una frangia esasperata di quei rivoluzionari che hanno posto fine alla dittatura di Mubarak, delusi della lentezza con cui viene fatta pulizia del vecchio regime?
La ricostruzione più accreditata non aiuta a fare chiarezza. Ormai è assodato che la scintilla è scoccata altrove, nel teatro Baloon, quartiere Aguza, dove le famiglie di alcune delle 846 vittime della rivoluzione, o meglio, della repressione tentata dai servizi di sicurezza di Mubarak, si erano date convegno per partecipare ad un evento organizzato da una Ong. Se non che, all’ingresso del teatro si sono presentate altre decine di familiari di “martiri” reclamando che i loro parenti caduti non erano stati inclusi nella lista. La polizia fa argine. Loro, i familiari, sfondano. La protesta si trasferisce a Piazza Tahir e nelle vicinanze, dove sorge il ministero dell’Interno, il palazzo più bersagliato del dopo rivoluzione. Ed è qui che, quando la polizia in assetto antisommossa si schiera a difesa dell’edificio, esplode la violenza. Lacrimogeni, proiettili ricoperti di gomma, bastoni, da un lato. Pietre, molotov e coltelli dall’altro. Sangue, fumo, svenimenti da gas, teste rotte.
Ventiquattro ore dopo le opinioni sono divise. Abdel Akhim, un operaio di 44 anni, è sicuro che a muovere i tre o quattromila dimostranti che hanno dato battaglia alle forze dell’ordine sia stata la rabbia verso lo stesso apparato di polizia che, assicura, «cerca di tornare al potere e di salvare tutto ciò che rimane del vecchio regime, incluso il Presidente del Consiglio Supremo delle Forze armate, maresciallo Mohhamed Hussei Tantawi». Per cui, conclude, «dobbiamo portare a conclusione quello che abbiamo iniziato».
E il processo al ministro dell’Interno, Habib el Adly, l’uomo piò odiato d’Egitto, già  condannato a 12 anni per corruzione e in attesa di altro processo per aver ordinato di sparare sui dimostranti? E il giudizio, già  fissato per il 3 agosto contro lo stesso Mubarak, che dovrà  rispondere delle stesse accuse e rischia la pena di morte? Abdel Akim non sente ragione.
La sua, però, non è l’unica opinione in campo e non è neanche quella maggioritaria, visto che gli appelli alla mobilitazione lanciati sui social forum durante gli scontri non hanno avuto un gran seguito. «Mi sembra – dice Abdul Rahman, l’ingegnere – che questa gente cerchi di acquisire vantaggi personali. Chiedere le dimissioni del Consiglio militare è da irresponsabili, mentre nel paese non s’è ancora formata una leadership politica».


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