La posta in gioco della sinistra

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Talvolta, peraltro, primavere fruttuose si estendevano per più di una legislatura e il nostro Paese conosceva Repubblica e Costituzione, ricostruzione e miracolo economico, le riforme del primo centro-sinistra, l’approdo all’Europa unita. Se ricordo queste tappe non è per abbandonarmi ad un compiacimento cronologico ma per respingere la tentazione emozionale che vedo emergere talora a sinistra di leggere le elezioni del 29 maggio come qualcosa di assolutamente nuovo, staccato dal passato e soprattutto dalla Storia, con alle spalle un periodo buio e negativo, senza lasciti da conservare o personalità  da apprezzare. Varrebbe anche per noi e non solo per il Nuovo Messico, l’epigrafe di Cormac McCarthy, “questo non è un paese per vecchi” ?
Eppure né uomini né cose stanno così. Certo, il quindicennio berlusconiano è il peggiore che abbiamo attraversato in tutta la nostra vita , tanto che alla fine tememmo di non arrivare in tempo (almeno per la nostra biografia) all’appuntamento con l’atteso ritorno della “felicità  della democrazia”, per dirla con quell’ indovinato titolo apposto al dialogo di Ezio Mauro con Gustavo Zagrebelsky (ed. Laterza). Quella “felicità ” del 2 giugno ’46 quando vinse la Repubblica o del 7 giugno del ’53 col fallimento della legge truffa o del 12 maggio del ’74 quandò trionfò il divorzio.
Vivere, per contro, la vittoria odierna come un drastico disconoscimento dei padri, disancorata dalla storia passata, priva, quindi, da ogni implicita responsabilità  ereditata, con masse in preda non alla felicità  ma alla euforia degli inconsapevoli può comportare pericoli non avvertiti. Uno di quei casi, come intimava Stalin ai suoi adepti, in cui la “vertigine del successo” può condurre al suo rapido e inatteso rovesciamento.
Cerchiamo, quindi, di analizzare a mente fredda qualche punto del quadro attuale, partendo dalle straordinarie affermazioni di Milano e Napoli ma contestando l’ipotesi che esse racchiudano in sé il compiuto significato della vittoria della sinistra. Ora, almeno altrettanto apportatrice di un rovesciamento straordinario della realtà  precedente sono quelle bandiere del Pd e dei suoi alleati issate su tutte le torri civiche dei capoluoghi di Regione del Nord e del Centro, nessuna esclusa. Un ritorno a lontane primavere rivissuto da generazioni che forse non ne hanno neppure il ricordo ma che da quell’album di famiglia discendono. Un discorso anche culturale da ricomporre come un puzzle. Non è una operazione facile e presuppone la consapevolezza di alcune verità  che l’euforia dilagante può mal sopportare. In primo luogo il rovinoso declino del Pdl e l’erosione della Lega portano la firma di Berlusconi e Bossi, nel senso che gli errori politici, i comportamenti indecenti, i disegni esclusivamente personali, le parole scriteriate del primo e la remissività  sostanziale del secondo, contraddittoria con le ragioni fondanti del suo movimento, hanno finito per provocare un’esondazione da risentimento diffusa in tutta la Padania con un’onda lunga che ha raccolto nuova linfa nella Capitale del Mezzogiorno e in Sardegna. Dico questo non per smorzare gli entusiasmi ma perché è indispensabile tener presente che le vittorie amministrative non si sono mai tradotte per automatismo in vittorie nelle elezioni politiche. Tanto più oggi quando non vi è stato un rinnovamento generale della sinistra ma un crollo autoprovocato della destra. I voti confluiti a sinistra da questa parte vanno considerati al massimo un prestito condizionato.
Un passo avanti di qualità  davvero innovativa, peraltro, la sinistra nel suo assieme l’ha fatto ed esso rappresenta un apporto proprio, un valore aggiunto decisivo per un risultato così esteso. È un apporto dovuto ai Vendola, ai Pisapia, ai de Magistris che sono riusciti ad imprimere e ad imporre la contendibilità  se non del Pd, almeno dello schieramento di cui resta parte essenziale. Ne avevamo indicato invano a suo tempo l’indispensabilità  democratica per liberare il nascente partito riformista dai lacci e lacciuoli burocratico-politichesi che ne avrebbero soffocato ogni slancio creativo. Sono prevalse, invece, fino a ieri miserrime competizioni per piccoli poteri spartitori, con delusione dei militanti residui. Fino a quando una operazione intuitiva e senza regole precostituite che ha unito – questa sì – Napoli e Milano, Cagliari e Torino, organizzazioni di partito e coalizioni estemporanee, ha dato vita ad una inedita Opa che con grandissima e positiva sorpresa ci ha fatto riscoprire la permanente esistenza di un substrato politico e valoriale, pronto al risveglio se si sente coinvolto.
Mantenere, consolidare, allargare questo capitale fino a ieri inespresso è la posta in gioco cui è chiamata la sinistra se vuole riproporsi per il governo del Paese. Impresa ancora ardua perché non sono state rimosse le cause che portarono ai passati rovesci del centro-sinistra e che l’elettorato non ha dimenticato. Anche coloro che oggi hanno cambiato opinione per votare un sindaco, non è affatto detto siano già  convinti a ripetere la scelta se la prospettiva di governo resterà  incerta, confusa e litigiosa. Non credo, però, che il fulcro del dissidio siano le alleanze: se il Pd con il Terzo polo o con le nuove sinistre o con tutti e due. No, lo scoglio più impervio sarà  il populismo che non è una brutta parola ma un appeal potente di consenso e aggregazione, soprattutto nei periodi di crisi economica grave. Esso si mescola allora con la richiesta forte di rottura, con il rifiuto delle compatibilità  economiche preesistenti, con rivendicazioni comprensibili per la sete di giustizia sociale sottostante. A volte gonfia il vento delle sinistre radicali, come oggi in Italia , più sovente accompagna sconvolgimenti di massa con spostamenti inversi, dalla sinistra democratica e socialista verso le destre estreme. E’ quanto sta avvenendo in Europa, dall’Olanda alla Scandinavia, dalla Francia all’Austria e all’Ungheria che ha sconciato l’entrata nell’Ue con una riforma costituzionale parafascista, fino al paradosso della Spagna dove le piazze fitte di giovani “indignati”, impoveriti, incerti sul futuro si accompagna col trionfo di destra nelle amministrative.
Il dilemma si porrà  subito anche per noi: giovani disoccupati, precari, nuovi poveri, operai su cui incombe la crisi chiederanno provvidenze almeno di mantenimento in un periodo in cui per sfuggire alla sorte della Grecia, gli italiani saranno chiamati ad uno sforzo fiscale aggiuntivo e non lieve (40 miliardi di euro all’anno). La sinistra è in grado di dare una risposta socialmente accettabile ed economicamente sostenibile? Le ali radicali saranno in grado di liberarsi senza perdere di slancio di un Dna condizionato dal populismo? Un difficile cammino di ripresa e sviluppo è stato indicato dal governatore Draghi. Le risposte politiche ed economiche della sinistra sono però tutte da scrivere. Altre volte ne è stata capace, con la solidarietà  dei patti sociali e con i duri impegni per agganciarsi all’euro. Frattanto la destra, terrorizzata dalla sconfitta, orfana di Belusconi e liberatasi dei rigori di Tremonti, potrebbe moltiplicare le risposte populiste anti-europee, esaltando il razzismo e la chiusura nazionalista. Grandi responsabilità  e tempi difficili gravano sui vincitori delle ultime elezioni.


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