La politica dei respingimenti

by Editore | 19 Giugno 2011 5:24

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È dal raduno annuale della Lega, con elmi e spadoni di un Medioevo di carta, che si attende una risposta importante. Intanto i gruppi dirigenti dei partiti, ben lungi dal seguire il saggio consiglio del Presidente Napolitano di cercare di «ritrovarsi uniti su grandi obiettivi comuni», sembrano uniti solo nello star fermi – uno spasmodico “surplace” in attesa che sia l’altro a fare la prima mossa. Così si è creata una speciale atmosfera di attesa della parola del Bossi: già , perché a parlare sarà  solo lui. Alla sua parola il compito di ricreare quell’unione mistica tra il capo e un popolo che – a detta dei dirigenti della Lega – ha pur dato di recente ai suoi capi una sberla clamorosa. Dal verbo di Pontida è dunque lecito attendersi un segnale di svolta. Intanto qualcosa di nuovo c’è pur stato: di nuovo, anzi d’antico. Parliamo delle misure recenti prese a caldo dal ministro Maroni, l’uomo forte della Lega, il vero candidato a gestire un possibile governo di fine legislatura col benestare dell’azzoppato Berlusconi. Recano il suo sigillo personale. Un decreto fulminato a tambur battente ha triplicato d’un sol colpo, da sei mesi a diciotto, il periodo di detenzione dei clandestini nei Cie e ha introdotto una durissima procedura per i “respingimenti”.
Torneremo su questa parola. Ma intanto segnaliamo anche la proposta del ministro per la politica internazionale: in una intervista del 17 giugno Maroni ha chiesto che la Nato schieri le sue navi davanti alle coste libiche per impedire la partenza di profughi. Non sembra molto realistico agitare lo spettro dell’invasione di masse libiche in un paese dove alla data del 17 maggio scorso secondo l’alto commissario Onu per i rifugiati erano arrivate dalla Libia circa 14.000 persone in tutto. Quanto al decreto contro gli immigrati, si tratta di una misura di una durezza terrificante ma del tutto irrealistica. Intanto è basata su premesse false. Non è vero, come ha dichiarato il ministro dell’Interno, che il decreto è «coerente con le norme dell’Unione europea»: la direttiva europea sui rimpatri chiedeva gradualità  nel percorso di rimpatrio dell’immigrato irregolare. Invece il decreto impone una espulsione immediata e colpisce chi non ottempera al primo ordine di espulsione con la galera da uno a quattro anni (da uno a cinque per i recidivi). Senza contare le sanzioni in danaro: l’immigrato irregolare dovrebbe pagare da tremila a diciottomila euro.
Pura irrealtà  per l’economia degli immigrati: ma anche per il ministro. Lo dimostra il fatto che tutta la procedura dovrebbe passare attraverso il giudice di pace. Secondo l’avvocato Livio Cancelliere dell’Asgi (associazione studi giuridici sulle immigrazioni) nessun giudice di pace applicherà  mai queste sanzioni. Dunque, si tratta solo di propaganda pre-Pontida.
Ma proviamo a leggere queste norme con lo sguardo dei disperati: quella parola “respingimento” è una bestemmia, come hanno ben compreso per primi molti commentatori del mondo cattolico, concordi nel condannarlo senza esitazione. È la cancellazione brutale di una tradizione antichissima ancora viva nelle nostre culture, quella che vedeva nell’esule, nel supplice una figura sacra agli dèi. Oggi “respingimento” significa essere ributtati nell’inferno senza che nessuno ti chieda se sei un perseguitato politico o religioso o se lo diventerai una volta respinto. Intanto, gli “irregolari” chiusi nei Cie penseranno a quel che li aspetta là  dove saranno rimandati. Conosciamo i loro pensieri: saranno come quelli di Nabruka Mimuni, l’immigrata quarantenne da trent’anni in Italia (ma non italiana per la legge) che circa due anni fa si uccise impiccandosi nel Cie di Ponte Galeria a Roma.
Dunque, niente di più vecchio di queste novità : è ancora l’antica politica della paura. Colpire l’immigrazione, trattare il clandestino come un delinquente, vuol dire riproporre al Paese la ricetta usata finora per farne salire la febbre xenofoba. Per un po’ questa ricetta ha funzionato. Ma la massa di cittadini che ha riempito le piazze e si è messa ordinatamente in fila davanti ai seggi del referendum ha mandato un segno molto chiaro: le cose sono cambiate, il Paese sta guarendo. Ci vogliono paraocchi speciali per non vederlo. Le risposte plebiscitarie alle quattro domande hanno inviato ai governanti una richiesta di diritti e di solidarietà , contro l’appropriazione privatistica dei beni comuni, contro l’impunità  per i potenti, contro scelte che mettono a rischio l’ambiente e il futuro delle giovani generazioni. E anche questo è stato, a suo modo, un “respingimento”.

 

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