La nuova sfida

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L’unica fondamentale eccezione del recente passato è stata quella del referendum costituzionale del 2006. Anche in quel caso – come oggi – in gioco c’erano il modello di sviluppo e le regole della convivenza. La partecipazione allora – come oggi – fu inaspettata e travolgente. Il 53,6 % degli aventi diritto si recò alle urne (nonostante, in quel caso, non vi fosse bisogno di quorum) e la nuova “costituzione di Arcore” fu respinta dal 61,7% dei votanti.
Se si ha uno sguardo lungo, volgendosi all’indietro per osservare la nostra storia repubblicana, si potrà  scorgere – andando oltre le vuote parole e le contingenze mutevoli – la trasformazione storica che stiamo vivendo e che la decisione del 12 e 13 giugno ha sanzionato. Come ben avevano intuito i nostri padri costituenti, gli istituti di democrazia diretta (il referendum in primo luogo) non sono strumenti ordinari di governo. Entro un sistema di democrazia rappresentativa la loro funzione è ben più essenziale. Da un lato, quella di ristabilire un ordine infranto, opponendosi ai tentativi di stravolgere la costituzione da parte di una risicata maggioranza parlamentare, non corrispondente a una maggioranza reale; dall’altro, quella di innescare un cambiamento di fase radicale, che la debolezza del sistema politico e rappresentativo non riesce a far emergere.
Basta pensare al fatto che persino la nostra democrazia nasce al seguito di un referendum istituzionale (quello del giugno del 1946), non essendo la scelta tra monarchia e repubblica nella disponibilità  delle forze politiche che pure avrebbero dato vita da lì a poco, in assemblea costituente, alla costituzione. Ma anche la fine della società  rurale e arcaica, con le sue tradizioni clericali e patriarcali, in un paese condizionato dalla chiesa e governato da un partito cattolico e tradizionalista, fu segnata da due referendum: quello sul divorzio e quello sull’aborto.
Scandalizzerò i più, ma fatemi dire che in molti altri casi i referendum – che abbiano conseguito il quorum o meno – sono stati in fondo “marginali”, usati per affermare indirizzi politici parziali, magari rilevanti, ma comunque non idonei a sbloccare un sistema politico e rappresentativo realizzando un nuovo ciclo storico. In tutti questi casi il referendum non ha mostrato neppure lontanamente la forza che le è propria. Referendum dimidiati, rapidamente riassorbiti dal sistema politico: basta pensare alla sorte subita da quello sul finanziamento pubblico ai partiti.
Il referendum ha dunque una sua forza intrinseca, che non sempre si manifesta, ma che non è neppure governabile dall’alto. Le forze politiche – comprese le più illuminate – non sono in grado di controllare il gioco dell’appello al popolo. Perlopiù, anzi, il referendum opera contro alcune di esse.
Vorrei sottolineare però anche un altro punto critico. Non è neppure possibile escludere che il pronunciamento del popolo si esprima imponendo sì una svolta al sistema, ma di segno regressivo. Così è avvenuto agli inizi degli anni ’90, quando il nuovo ciclo politico è stato attivato dai referendum sui sistemi elettorali. In quel caso un rovinoso plebiscito, nel 1993, ha fornito la legittimazione necessaria per imporre la cosiddetta “democrazia maggioritaria”. Una democrazia senza qualità  che è alla base della più profonda involuzione politica della Repubblica.
Se dunque non bisogna farsi prendere dai miti, neppure da quello referendario, è però inevitabile e importante rilevare che questo ciclo è ormai giunto al termine. È il corpo elettorale ad averlo decretato, con la sua espressione diretta di volontà , il 12 e 13 giugno. I nostri rappresentanti non possono fare altro che prenderne atto. E noi con loro, tirando un sospiro di sollievo. Il vento della storia veramente è cambiato se è lo stesso popolo italiano (la maggior parte di esso), che prima aveva sancito la peggiore fase della nostra storia, ora si ribella ai suoi esiti nefasti.
Ha ragione chi dice che la società  civile s’è risvegliata da un lungo sonno. Adesso però dobbiamo scuoterci e scuotere soprattutto chi pensa ancora che il referendum sia solo un episodio che può essere riassorbito entro gli schemi della politica corrente. Nulla sarà  come prima. Il referendum ha fatto il suo corso, null’altro deve essergli chiesto. Ora spetta a noi costruire il nostro futuro.
Non sarà  un compito facile, ma questo referendum solleva problemi per nulla contingenti, che vanno ben oltre le stesse questioni specifiche sottoposte agli elettori. Ciò che appare tornare in gioco è l’assetto complessivo del sistema democratico.
Nessuno può permettersi di sottovalutare la dimensione dei problemi. Neppure il movimento che ha dato vita alla grande avventura del referendum, contro ogni aspettativa e al di fuori della cittadella della politica tradizionale. Ora bisogna trovare il modo per invaderla quella cittadella. Non ci si può permettere di proseguire la lotta senza rappresentanza. Non contro i partiti, ma certo cercando di sconvolgere le logiche che hanno portato alla loro asfissia. Non contro le istituzioni, ma certamente cercando di trovare un nuovo equilibrio che, abbandonando l’ossessione per la governabilità , riscopra le virtù democratiche della rappresentanza parlamentare.
Organizzare la partecipazione democratica, modificare lo stato di cose presenti, confrontarsi con i partiti e le istituzioni: ecco la nuova sfida.


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