La maschera del cavaliere
Domani la Corte Costituzionale dovrà rispondere al ricorso presentato dal governo attraverso l’Avvocatura di Stato, con l’argomento che la sospensione per dodici mesi del programma nucleare italiano varata dopo la tragedia giapponese del reattore di Fukushima avrebbe modificato sostanzialmente la situazione rendendo improponibile il referendum.
La matassa apparentemente complessa del ricorso si dipana facilmente. Il fatto è che nel contesto della tragedia di Fukushima, la domanda relativa al nucleare posta dai promotori del referendum si profila chiaramente come quella più capace di realizzare le due condizioni indicate dall’articolo 75 della Costituzione: che partecipi la maggioranza degli aventi diritto al voto e che la proposta soggetta a referendum ottenga la maggioranza dei voti validi. Ora, una cosa deve essere chiara. Che si realizzino o meno le centrali nucleari in Italia al nostro premier non potrebbe importare di meno. L’unico futuro che gli importa è il suo. Non le scorie nucleari ma quelle penali dei reati comuni di cui è accusato nei processi pendenti a suo carico sono i problemi che occupano il suo orizzonte. E il tentativo che ancora una volta lo impegna allo spasimo è quello di mascherare il fine dell’interesse suo privato dietro le nebbie di una confusa discussione sui problemi del paese. Il punto è che tra i quesiti del prossimo referendum ce n’è uno, il quarto e ultimo, che riguarda il “legittimo impedimento a comparire in udienza” fissato dall’art. 2 della legge 7 aprile 2010: grazie a questa legge, che più “ad personam” di così si muore, Berlusconi è stato autorizzato da una maggioranza asservita ai suoi bisogni a infischiarsene degli inviti a comparire in udienza nei processi nei quali figura come imputato. Se il referendum passasse, Berlusconi sarebbe riportato alla condizione di cittadino di un paese dove la legge vale per tutti. Dunque è necessario che la questione del nucleare esca dai quesiti del referendum se si vuole esorcizzare il rischio che venga abrogato anche il “legittimo impedimento”. A questo scopo il premier ha giocato la carta della sospensiva.
L’esito delle recenti elezioni amministrative ha mandato un messaggio di estrema chiarezza. Per Berlusconi l’unico rimedio possibile davanti al disastro è “guadagnare il beneficio del tempo”, come suggerivano i consiglieri dei sovrani degli staterelli italiani preunitari quando incombeva la minaccia di confronti militari con le grandi potenze europee. Il tempo, appunto: bisogna che per un po’ di tempo il popolo italiano sia tenuto lontano dalle urne, ora che ha dimostrato di essersi riscosso dall’incantesimo e di non essere più disposto a farsi trascinare dalle emergenze personali del premier. E il referendum imminente minaccia una grandinata che questo governo molto traballante non può sostenere. Da qui la necessità di ostacolare in ogni modo la regolarità della consultazione ricorrendo al tentativo disperato del bluff. Parliamo di disperazione e di bluff a ragion veduta. La sospensione del programma nucleare è stato il bluff di un giocatore disperato. E anche impudente. Nella conferenza stampa col presidente francese Sarkozy del 16 aprile scorso Berlusconi ha dichiarato apertamente che il governo italiano, cioè lui stesso, resta convinto che “l’energia nucleare sia il futuro del mondo”. Dunque nella sostanza niente cambia negli orientamenti del governo. Ora, una sentenza della Corte Costituzionale (la n. 68 del 1978) ha affermato chiaramente che “se l’intenzione del legislatore rimane fondamentalmente identica, malgrado le innovazioni formali o di dettaglio che siano state apportate dalle Camere, la corrispondente richiesta /referendaria/ non può essere bloccata, perchè diversamente la sovranità del popolo (attivata da quella iniziativa) verrebbe ridotta ad una mera apparenza”. Ecco il punto decisivo: la sovranità del popolo, il cuore della democrazia, ha nell’istituto del referendum la sua manifestazione più alta, proprio per questo regolata in maniera particolarmente attenta dai padri costituenti. L’idea di democrazia implica l’assenza di capi, come ha scritto Kelsen e come ci ha ricordato di recente Luigi Ferrajoli. Implica anche che sia cancellato lo strappo al principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge (art.3): proprio di tutti, nessuno escluso.
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