La Marcegaglia convoca i sindacati e punta a firmare un «avviso comune»

by Editore | 14 Giugno 2011 8:00

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Coperta dal botto referendario, si è aperta una settimana decisiva per il ridisegno delle relazioni industriali in questo paese e sullo stesso ruolo dei sindacati. Come previsto, ieri Emma Marcegaglia ha spedito ai tre sindacati confederali altrettante «lettere di invito» per incontrarsi e discutere di «esigibilità » dei contratti (che dovrebbero diventare, nella sua visione, quasi soltanto aziendali) e di rappresentanza sindacale.
Può sembrare superfluo pretendere che un accordo o un contratto sia «esigibile», ma – sulla scia dello sfondamento normativo messo in pratica dalla Fiat – le imprese intendono portare a casa una limitazione drastica del diritto di sciopero. Sotto tiro non sono le grandi scadenze nazionali (ormai molto limitate per numero e durata), ma la microconflittualità  che si mette in moto quando l’impresa «forza» unilateralmente l’interpretazione di un accordo; e quindi cerca di aumentare i ritmi, estendere l’orario di lavoro, disporre una «flessibilità » senza doverla contrattare, ecc.
Per realizzare questo obiettivo – il controllo totale sulle persone fisiche che lavorano – Confindustria ha bisogno che il sindacato cambi pelle: da «rappresentante» dei lavoratori a «garante» dell’assenza di conflitto. Nelle parole ancora ieri ripetute dalla Marcegaglia, «proporrò che se un’impresa sigla un accordo con la maggioranza dei lavoratori, questo deve valere per tutti». Venerdì aveva invece detto «la maggioranza dei sindacati». E non è la stessa cosa. Se sono i lavoratori a decidere, non c’è problema nemmeno per la Fiom (che infatti chiede sempre il referendum) o addirittura per i sindacati di base. Se invece sono i sindacati, magari investiti del potere di stabilire dall’alto chi devono essere i «delegati», la situazione è opposta: i lavoratori non decidono più nulla. E non sembra che Marcegaglia si sia convertita alla linea Fiom…
Su questo punto – sarà  un caso – ieri la Uil, tramite lettera inviata a tutte le parti sociali e al governo, ha disdetto gli accordi del 1993. Quelli che, insieme alla «concertazione», regolano anche il meccanismo della rappresentanza sindacale sui luoghi di lavoro (Rsu). Il «problema della rappresentanza» è dunque a questo punto aperto anche dal punto di vista formale.
All’incontro – «probabilmente già  questa settimana, altrimenti all’inizio della prossima», ha detto la Marcegaglia – la Cgil si presenterà  con poche scelte a disposizione oltre a un secco «no». Cosa che però non impedirà  alle altre parti di sottoscrivere in tempi rapidissimi – se non già  a quel tavolo – un «avviso comune» che poi il governo (con Maurizio Sacconi, una vera fucina di idee contro i lavoratori) si incaricherà  di trasformare in legge. O almeno provarci, visto il mare agitato dentro la maggioranza di centrodestra.
La Marcegaglia però preferirebbe una «soluzione condivisa»: «un intervento del governo sui contratti e sulla rappresentanza» è possibile «solo se non si riesce a raggiungere un accordo tra tutte le parti». Lascia fuori la Cgil – 5,7 milioni di iscritti – proprio mentre dal paese sale un’ondata di partecipazione popolare che non si vedeva da decenni, può essere rischioso. Il gioco degli «accordi separati», che con questo governo è diventato la norma, potrebbe tornare insomma ben presto fuori moda. Ciò non impedisce, alle imprese, di guadagnare più terreno possibile: è stato il giornale della Fiat, ieri, a lasciar trapelare un possibile obiettivo «unitario» capace di metter d’accordo Tremonti, Confindustria e Susanna Camusso: «un appoggio ai nuovi contratti (molto più aziendali che nazionali, ndr) in cambio di meno precari» (ma non per legge…). Una proposta indecente, se è consentito esprimersi.

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