by Sergio Segio | 11 Giugno 2011 13:04
È la via crucis del quorum. Una babele di numeri, «una montagna da scalare», una sfida tutt’altro che facile, figlia di una normativa, quella del «50% +1», che aveva un senso agli albori della storia repubblicana, quand’era scontato che l’affluenza alle urne toccasse il 90% degli elettori, o giù di lì. Gli italiani chiamati ad esprimersi domani sui quattro quesiti referendari sono esattamente 47.118.784, il che significa che il «numero magico del quorum» è esattamente di 25.209.345 elettori. Sono quelli che si devono recare alle urne affinché il referendum sia valido. Tanti, tantissimi. Un’immensità . Per fare un confronto, alle elezioni politiche del 2008 il centrosinistra raccolse complessivamente 13,6 milioni di voti. Anche sommando altri partiti d’opposizione, a malapena si arriva a 17 milioni. Questo vuol dire che nel migliore dei casi mancano all’appello circa 8 milioni elettori: da cercare evidentemente nell’area del centrodestra e del non voto.
Ci sono altre variabili da tenere in considerazione. Il primo sono i 3.299.905 italiani all’estero. Il fatto è che secondo gli analisti si tratta di persone in generale scarsamente invogliate al voto. Nondimeno, a causa del complicato meccanismo che regola il voto nelle circoscrizione estere, hanno già votato, peraltro su schede che riportavano il vecchio quesito sul nucleare, ed il Viminale ha affermato che non era possibile stampare per tempo le nuove schede, per cui il loro voto potrebbe essere considerato tecnicamente nullo. Secondo un calcolo dell’Idv, questi 3,2 milioni alzerebbero il quorum «reale» al 58%. Poi c’è la questione dell’affluenza. Prendete il dato delle scorse amministrative. Alle comunali è stato del 68,5%, alle provinciali ancora più basso, ossia del 61%. Questo vuol dire che chi spera che i referendum vadano a vuoto può semplicemente sommare il proprio «non voto» propugnato da gran parte del centrodestra alla percentuale di chi tende a non presentarsi alle urne: un fetta di italiani che supera ampiamente il 20%. È chiaro che i promotori della consultazione sperano in due o tre «effetti trascinamento»: in primis, la grande sensibilizzazione intorno alla questione nucleare dopo il devastante incidente di Fukushima, poi la forte mobilitazione intorno ad un tema sensibile come quello dell’acqua e la percezione, tutta politica, che una vittoria ai referendum possa rappresentare una spallata al governo Berlusconi e, soprattutto, la grande onda di passione civile che ha portato alle vittorie di Pisapia, De Magistris, Fassino & co. Stando ai dati, però, il problema è che la battaglia va ben oltre gli schieramenti per come si sono sono definiti alle amministrative. Vediamo, per esempio, Milano. Qui di fronte a 996 mila elettori, quelli che si sono effettivamente andare a votare sono stati 673 mila al primo turno e 671 mila al secondo, con un’affluenza rimasta di poco sopra il 67,3%. Il che vuol dire che il quorum teorico di Milano è di 492 mila elettori. Facciamo un po’ di conti: se consideriamo tutti i voti di chi al secondo turno ha portato Giuliano Pisapia alla sua straordinaria affermazione, imprevedibile in questi termini fino a poche settimane fa, siamo complessivamente a 365 mila voti. Ne mancano 127 mila, che bisogna pescare tra i 297 mila che hanno segnato la propria crocetta sul nome di Letizia Moratti. Ancora più intricato il caso Napoli, dove bisogna fare i conti con un astensionismo molto alto. Al ballottaggio è andato a votare solo il 50,5%: 410 mila elettori. Di questi 264 mila hanno votato De Magistris: bisogna conquistarne altri 146 mila. E vanno trovati ovunque: tra gli elettori di Lettieri, e soprattutto nel popolo del non voto. Come avevamo detto? Una via crucis.
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