La flessibilità  inamovibile di Ichino & CO.

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L’augurio di Ichino e di buona parte del Pd, nonché dei sindacati concertativi, è che si proceda verso «uno snellimento del contratto nazionale, pur conservandone l’inderogabilità , per lasciare più spazio alla contrattazione aziendale». Attenzione, non si parla di aggiungere eventuali accordi aziendali alle norme sancite dai contratti nazionali, ma di stabilire «a quali condizioni ed entro quali limiti il contratto aziendale possa sostituire la disciplina contenuta in quello nazionale». Tutto ciò in un contesto in cui, ricorda Ichino, «due terzi dei lavoratori italiani non sono coperti dalla contrattazione aziendale». Il ragionamento è quindi il seguente: riduciamo il peso del contratto nazionale a vantaggio della diffusione del contratto aziendale, ovvero riduciamo la rigidità  della disciplina collettiva a favore della flessibilità  contrattuale aziendale. 

Simili ragionamenti non sono nuovi e ricordano il tema della de-regolamentazione del mercato del lavoro e il dibattito che ne è scaturito ai tempi dell’approvazione del pacchetto Treu nel 1997, la legge che ha accelerato in modo irreversibile il processo di precarizzazione del lavoro, di cui oggi vediamo compiutamente i risultati. Il metodo è, mutatis mutandis, lo stesso. La posizione di Ichino e del centrosinistra era quella di sostituire condizioni flessibili a supposte condizioni rigide nel mercato del lavoro. Se all’epoca ci si dimenticava di affermare che la presunta rigidità  del mercato del lavoro (impersonificata non solo dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, ma anche dalla scarsità  di contratti atipici) interessava poco più di un terzo di tutti i lavoratori italiani, oggi Ichino si guarda bene dal ricordare che, secondo l’Istat, solo poco più della metà  dei lavoratori e delle lavoratrici sono tutelate dalla contrattazione collettiva di categoria. 
Il fastidio si tramuta poi in nervosismo se si pensa che oggi si vuole procedere allo smantellamento di fatto del contratto collettivo, tramite una riduzione del suo grado di applicazione, con la scusa che in un secondo tempo si potrebbe provvedere a una regolazione «moderna» delle relazioni industriali, magari auspicando un nuovo Statuto dei Lavori, dai confini ancora molto vaghi. La flessibilizzazione del mercato del lavoro veniva giustificata in nome dell’occupazione e della competitività , condizioni necessarie per poter poi procedere, in un secondo tempo, a interventi sulla sicurezza sociale, almeno nell’ottica del sindacato e del Pd, secondo i principi di una fraintesa flex-security. Dopo vent’anni siamo sempre al primo tempo. Nel frattempo la flessibilità  si è tramutata in precarietà  e di sicurezza sociale non se ne parla. Ancora oggi negli ambienti più «illuminati» si parla di flex-security, quando invece si dovrebbe discutere di secur-flexibility: solo dopo che la sicurezza sociale viene garantita, si può discutere di regolamentazione del mercato del lavoro. 
Il nervosismo si trasforma in rabbia, perché sappiamo già  come andrà  finire: il contratto nazionale verrà  depotenziato e smantellato, i contratti aziendali non decolleranno e la contrattazione individuale in condizione di subalternità  e ricattabilità  del lavoro la farà  da padrone, grazie anche ai sindacati compiacenti. E non è un caso che il giuslavorista Ichino oggi, nelle vertenze di lavoro, tende a difendere più le imprese che i lavoratori. Di fronte a tale prospettiva, tuttavia, non basta la semplice denuncia o l’arroccamento sulla sola difesa del contratto collettivo, così come contro il dilagare della precarietà  non è stata sufficiente la sola richiesta di lavoro stabile. Occorre proporre un sistema di relazioni industriali che tenga conto delle modifiche strutturali nel processo di valorizzazione e accumulazione e delle nuove forme di sfruttamento. Magari proponendo già  all’interno della contrattazione collettiva forme di garanzia di reddito e il mantenimento dei diritti sul lavoro anche prescindendo dalla prestazione lavorativa e dalla sua mobilità . Ma questo è un discorso troppo «moderno» per gli Ichino e dintorni, ispirati e condizionati, nella sostanza delle loro proposte, dalla supina accettazione delle compatibilità  d’impresa.


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