La cura dell’acqua

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 Londra, fine anni Novanta. Con mia sorpresa, e senza poterci fare nulla, la bolletta dell’acqua conteggiava un consumo presunto di un anno da pagare in anticipo. L’azienda era Thames Water, subentrata con la privatizzazione in Inghilterra e in Galles decisa nel 1989 da Margaret Thatcher. Uno studio dell’Università  di Greenwich e le rivelazioni di manager “pentiti” hanno dato un quadro preciso di come ha funzionato tutta la gestione privata: dati falsi, accordi tra imprese, sussidi pubblici mascherati, reti idriche peggiorate (Thames Water 40% di perdite), qualità  dell’acqua minore, tariffe sempre più alte, più lavoro precario, authority regolatrice non in grado di controllare nulla. In compenso dividendi altissimi per gli azionisti.
Cochabamba, Bolivia, 2003, un viaggio dopo la vittoria dei boliviani nella “guerra” esplosa dopo la privatizzazione dell’acqua, venduta dal governo a un consorzio di cui faceva parte anche l’italiana Edison (dal 2005 controllata con i francesi dalla municipalizzata AEM di Milano – poi A2a con Brescia). Previsti per 30 anni il monopolio di ogni fonte d’acqua, permessi per accedere alla risorsa, licenze per raccogliere l’acqua piovana. Misure che distruggevano il sistema di gestione tradizionale dei regantes, contadini irrigatori che preservano l’acqua e la distribuivano a tutti gli abitanti. Dopo un anno le tariffe sono aumentate del 300% (per una maestra 30 dollari al mese su un salario di 80) senza adeguamenti della rete, 55% degli abitanti erano come prima senza allaccio. Rivolta, morti e feriti, rescissione del contratto. Per i profitti mancati il consorzio aveva chiesto al Paese più povero del pianeta un risarcimento di 25 milioni di dollari, desistendo soltanto nel 2006 per le proteste arrivate da tutto il mondo. La gestione dell’acqua è passata ai tecnici del comune e ai delegati della Coordinadora nata nella lotta, ed ha inserito anche gli usi civici dei regantes.
Se il privato si muove secondo una logica estranea alla conservazione della rete della vita, il pubblico, depurato da partiti, cricche e mafie, dovrebbe acquisire il concetto di cura e formare funzionari che capiscano qualcosa di ecologia. L’acqua non può essere una merce ma nemmeno una proprietà  pubblica. Al pubblico compete l’educazione al risparmio della risorsa, il recupero di abitudini antiche quali la raccolta dell’acqua piovana e il drenaggio dal terreno, il controllo della qualità  delle falde ben oltre i depuratori o la richiesta di deroghe, come è stato in Italia per l’atrazina o per l’arsenico che inquina l’acqua del viterbese. Per tutto questo il pubblico non basta. Serve la partecipazione competente ed efficace dei cittadini, gli users apprezzati dal premio Nobel per l’economia Elinor Ostrom, che già  si muovono ovunque per difendere i beni comuni necessari alla vita.


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